Associazione Ricerche Storiche
Valtaresi
"A. Emmanueli” - Borgotaro
Giacomo Bernardi
LE
COMUNALIE DI VALDITARO:
una storia di 20
secoli
Presentazione
La montagna, intesa come insieme di rapporti uomo-territorio, ha subito le trasformazioni più profonde.
Se le città sono rimaste il luogo dei servizi,
dei commerci, dell’industria, delle “comodità” e la collina il
luogo delle produzioni agricole d’alta qualità: vino e olio in
testa, la montagna non è più quella del passato.
Non solo perché le produzioni sembrano aver
perduto valore economico, non solo perché oggi viene depredata delle
sue acque, delle sue case, della sua quiete e spesso dei servizi che
possedeva, ma anche perché antiche tradizioni e modi di vita, frutto
di un rapporto d’affetto e di rispetto tra uomo e territorio, sono
entrati in crisi profonda e stanno quasi per scomparire.
Questa pubblicazione ci riporta a pensare ad un
passato che non ha soltanto un valore storico, ma che può essere
d’aiuto per tentare di ricreare modelli di vita e di rapporti con
l’ambiente naturale, capaci di ridare vita alla montagna.
L’Associazione A. Emmanueli
Introduzione
Questa pubblicazione non vuol vantare particolari
pretese. La storia delle Comunalie merita ben altri approfondimenti.
Ho soltanto inteso, con questo contributo, colmare un vuoto della storiografia locale che poco, o nulla se si esclude Tommaso Grilli, ha espresso sul tema “comunalie”.
Da qualche anno, in specie nell’arco alpino, si
vanno intensificando incontri, comunicazioni, ricerche indirizzate a
riscoprire le origini e le prospettive di quel complesso di
ordinamenti che vanno sotto il nome di proprietà collettive,
Il mio augurio è che questa pubblicazione, nel
ricordare agli utenti e agli Amministratori pubblici quale grande e
lunga storia abbiano alle spalle le nostre Comunalie, sia occasione
per aprire, anche da noi, un dibattito su queste importanti realtà
che posseggono enormi potenzialità tutte da studiare.
Forse, per salvare la montagna dalla sua lenta
agonia, per sperare in una sua ripresa, occorre prima di tutto
riscoprire le forme più antiche dell’abitarvi e ritrovare quegli
antichi modelli di convivenza che hanno permesso agli uomini del
monte di vivere per secoli in armonia con il loro ambiente.
Borgotaro, nel dì di San Giovanni Crisostomo del 2002
Giacomo Bernardi
A s p e t t
i s t o r i c i
I LIGURI
L’ampia fascia boschiva che dall’altezza di
600/700 metri raggiunge gli alti crinali dell’Appennino e si stende
compatta sulla sponda destra del fiume Taro, tra i torrenti Cogena e
Gotra, appartiene quasi interamente, e pro indiviso, alle Comunalie
di Baselica, Pontolo, Valdena, San Vincenzo, Rovinaglia(in Comune di
Borgotaro) e di Gotra, Buzzò, Albareto, Boschetto, Tombeto, Groppo e
Montegroppo(in Comune di Albareto) ed è goduta, da tempo
immemorabile, dagli abitanti di quelle frazioni.
I beni della proprietà collettiva sono inalienabili
e indivisibili, ciò comporta la trasmissione del diritto di
compartecipazione ai discendenti degli abitanti originari.
Tali territori, pur appartenendo alla provincia di
Parma, sono collocati quasi a cavallo di tre regioni: Emilia-Romagna,
Liguria e Toscana ed erano, in età pre-romana, abitati dal popolo
dei “Liguri” come è testimoniato, tra l’altro, dalla presenza
di numerosi e significativi toponimi ed in special modo dal dialetto
che ancora vi si parla, ricco di vocaboli e suoni liguri.
Questi antichi abitatori della Valtaro che, secondo
Polibio, erano una diramazione dei Celti, vengono descritti da
diversi storici romani(Tito Livio, Procopio, Strabone, Floro). Di
loro si è scritto che fossero tarchiati e muscolosi, che vivessero
di agricoltura e pastorizia e si cibassero essenzialmente di
latticini e carne. Usavano come bevanda una specie di birra ottenuta
con orzo fermentato e abitavano in caverne o capanne in muratura di
pietra a secco con tetti di paglia.
Vivevano in stato di semi-nomadicità e in battaglia erano molto abili e, pur non avendo né la forza né l’organizzazione dei Romani, tennero loro testa per decenni.
Nel combattimento ricorrevano spesso agli agguati:
attaccavano di sorpresa per poi scomparire tra le folte boscaglie dei
monti.
In genere, gli scrittori latini misero in cattiva
luce i Liguri e li descrissero come sleali, scaltri e illetterati.
“E’ più difficile scovarli che batterli”, scriveva uno
storico.
La ragione di ciò va ricercata forse nel fatto che
i Liguri seppero impegnare a fondo l’esercito romano,
quell’esercito che già aveva domato gli altri popoli dell’Italia,
cacciato i Cartaginesi dalla Sicilia, sparso il terrore fin sotto le
mura di Cartagine, ma che ancora non riusciva a domare un popolo di
montanari malamente armato di archi e fionde.
Tito Livio afferma che per assoggettarli se ne
dovettero trapiantare cinquantamila nel Sannio. Numero che pare
alquanto sproporzionato a fronte di quella che doveva essere la
consistenza della popolazione dei Liguri.
Erano divisi in varie tribù e la loro resistenza,
nella zona che ci riguarda, terminò nel 157 a.C.
E’ assai probabile che l’origine delle Comunalie
Valtaresi, ossia l’utilizzo in comune della proprietà, risalga
alle usanze di questo popolo presso il quale il godimento dei beni
era comune e le popolazioni che erano seminomadi fruivano del bene
terra nell’insieme della tribù.
Soltanto in epoca successiva, con la colonizzazione
romana decisa assertrice della proprietà individuale, le tribù
liguri, ormai domate e romanizzate, si stabilizzeranno in nuclei
abitati e i terreni coltivati nelle immediate vicinanze delle
abitazioni diventeranno proprietà dei singoli, mentre quelli più
lontani, ed in specie i boschi fino ai crinali, continueranno ad
essere goduti in comune dall’insieme della tribù. Ciò sembra
trovare conferma in due importanti ritrovamenti epigrafici risalenti
al periodo romano.
I ROMANI
Se i Liguri non hanno lasciato documentazione
scritta d’alcun tipo, ne hanno però trasmesso a noi i Romani, i
quali, in particolari circostanze, affidavano a tavole di bronzo
alcune testimonianze di specifico rilievo.
Al caso, ma anche alla perspicacia di alcune persone
illuminate, si devono il ritrovamento e la salvaguardia di due
importanti epigrafi dell’epoca romana, che ci donano un po’ di
luce su un periodo e su temi altrimenti avvolti nelle nebbie di un
lontano passato.
Il primo ritrovamento, avvenuto in Valpolcevera
presso Genova, si rifà al tempo in cui i Liguri erano stati da poco
assoggettati dai Romani. Si tratta di una tavola bronzea, comunemente
conosciuta come “Sententia Minuciorum”, risalente
all’anno 117 a.C. sulla quale sta scritta una sentenza dei giudici
romani in merito ad una vertenza sorta tra due tribù dei Liguri.
Sulla tavola si può, tra le altre cose, leggere:
“…nessuno abbia possesso in quel terreno se non in
maggioranza...quel terreno sarà pascolo comune(ager compascuos
erit), in esso sia lecito che Genovesi e Veturii pascolino il
bestiame così come in tutto l’altro terreno comune al genovese;
nessuno proibirà, nessuno farà violenza né impedirà di prendere
da quel terreno legna da ardere o da costruzione e di usarla”.
Questo documento epigrafico, che risale a oltre
duemila anni fa, è di particolare e significativa rilevanza perché
testimonia l’utilizzo in comune, da parte delle tribù liguri, di
un vasto territorio nel quale tutti sono autorizzati, senza
impedimento alcuno, a pascolare il bestiame, prelevare legna da
ardere e da lavoro, che sono gli stessi diritti di cui godono ancora
oggi gli utenti delle Comunalie di Valditaro.
Il secondo importante ritrovamento si riferisce alla
famosa Tavola Alimentaria, rinvenuta a Veleia(PC) nel 1747, della
misura di metri 2,86 x 1,38, che si trova oggi presso il Museo
Archeologico Nazionale di Parma.
Essa reca incisi due “decreti” dei Decurioni di
Veleia risalenti al 112 d.C., epoca in cui l’Alta Valtaro faceva
parte di quel Municipium .
Siamo a circa 300 anni dalla data della “Sententia
Minuciorum”
I due “decreti” avevano un unico scopo: quello
di obbligare un certo numero di grandi proprietari a ricevere a censo
una somma corrispondente, all’incirca, alla decima parte del valore
del loro patrimonio, affinché con gli annui frutti da loro dovuti si
potessero mantenere circa 300 minori bisognosi.
Sulla Tavola sono meticolosamente incisi i nomi dei
proprietari individuati per l’obbligazione, i nomi dei luoghi in
cui si trovano le loro proprietà, quello dei confinanti, il tipo di
proprietà.
Se ne ricava una vera e propria carta topografica
che si stendeva dalla città di Veleia fino ai Municipi confinanti di
Parma, Piacenza, Lucca e Libarna.
La Tavola dimostra la lungimiranza e la sensibilità
dei nostri antenati nei confronti dell’infanzia abbandonata o
comunque povera e bisognosa. Ma ci permette anche di conoscere a
fondo l’organizzazione amministrativo-territoriale del Municipio
Veliate(assimilabile ad una Provincia odierna) che risulta suddiviso
in “pagi”(assimilabili agli odierni comuni), e in “vici”
(assimilabili alle frazioni).
Nell’elencare le proprietà da “ipotecare” se
ne specifica la tipologia secondo le denominazioni del tempo e cioè:
“praedia”(possedimenti sia urbani che rurali),
“fundi”(poderi rustici), “silvae”(selve o
foreste), “saltus”(pascoli gerbidi o boscaglie). In molti
casi le varie proprietà risultano essere confinanti non con i beni
di un altro proprietario, ma con possedimenti detti “comuniones”
che chiaramente si riferivano alle proprietà comuni, a dimostrazione
che anche nel periodo romano, qui come in Valpolcevera, erano rimaste
in vigore le antiche usanze dei Liguri.
Anche se non sempre è facile far corrispondere i
toponimi contenuti nella Tavola a quelli odierni, tuttavia gli
studiosi sono concordi su alcune corrispondenze che riguardano la
Valtaro.
Al “saltus Bitunias”, citato nella Tavola, tutti
collegano il nome dell’odierna Bedonia. Vi è poi, sempre
nell’epigrafe la voce “Tarsuneo”, toponimo che non abbisogna di
eccessiva fantasia per essere collegato a Tarsogno.
Inoltre, escludendo tutte le altre interpretazioni
che possono sollevare il minimo dubbio, ci sono almeno altri due
toponimi che, senza incertezza alcuna, si riferiscono al territorio
del Comune di Borgotaro.
Uno è “Tarbonia” che è l’odierna Trapogna
situata in Val Vona, l’altro è “Taxtanulas” che è riferito a
Testanello di Tiedoli.
Questi riconoscimenti confermano l’appartenenza
della Valtaro al Municipio Veliate nel cui territorio, come abbiamo
visto, erano presenti fondi e proprietà citate come “comuniones”
e “compascua”, in continuità con le precedenti testimonianze.
I LONGOBARDI
Le invasioni che seguirono la caduta dell’Impero
Romano, si presume non abbiano modificato gli usi preesistenti, anzi
con l’arrivo dei Longobardi è assai probabile che il principio
della collettività fondiaria si sia ulteriormente consolidato
trovando rispondenza favorevole in quelle che erano le abitudini e le
tradizioni dei popoli germanici.
E’ risaputo che quella dei Longobardi fu
migrazione di un intero popolo. Giunsero in Italia nel 568, guidati
dal loro Re Alboino. Pare fossero in 200.000, con donne, vecchi e
bambini. Prima di abbandonare la loro terra avevano bruciarono i loro
villaggi e tutto ciò che possedevano come segno che non sarebbero
più tornati.
In poco tempo conquistarono quasi tutta l’Italia
settentrionale.
Consideravano il suolo come proprietà collettiva
che apparteneva alla tribù, alla “fara”, mentre i singoli
individui non ne avevano che il godimento temporaneo. Come tra tutti
i popoli Germanici, l’ideale dell’uomo era quello della guerra e
nei brevi intervalli la caccia. Il lavoro dei campi era invece
ritenuto inadatto, quasi disonorevole.
Per questo, durante tale periodo, gli unici soggetti
dotati di tutti i diritti erano gli arimanni(gli uomini
dell’esercito), i guerrieri.
La dominazione longobarda influì più di ogni altra
sull’evoluzione della società medioevale, incidendo in modo
particolare sul territorio e non sulle città che essi evitavano.
Pochi, se non gli studiosi, sanno che i primi
documenti Longobardi dell’Italia Settentrionale giunti fino a noi,
sono stati trovati a Varsi a testimonianza che le nostre zone videro
la presenza di quella popolazione.
Ed è quindi naturale ch’essi abbiano rafforzato,
se non istituzionalizzato, il concetto della proprietà collettiva da
noi già presente.
Di questo periodo ci sono giunti, come detto, alcuni
documenti, tra i quali il più importante per noi pare essere quello
riferito alla risoluzione di una lite intervenuta tra i Gastaldi di
Parma e Piacenza per questioni di confine.
Il territorio conteso tra i due alti funzionari
longobardi era in buona parte situato in Valtaro e la deliberazione
presa nell’anno 674 dal Re Longobardo Pentarido, per porre fine
alla lunga diatriba, cita molti toponimi che ci riguardano da vicino.
Nel suo intervento, infatti, il Re sentenzia che la linea di confine tra i due contendenti debba essere quella segnata dall’allineamento che partendo da Specchio(Solignano), va a Pietramogolana(Berceto), per seguire quindi il corso del fiume Taro fino alla confluenza del Gotra, per proseguire poi lungo il corso di quest’ultimo, fino al monte Gottero.
Dice il testo: “…et inde in Monte Specla,
illa parte Cene, ubi termine stat, deinde in Monte Caudio et Petra
Mugulana, quod est super fluvio Taro, et illa parte Taro per rivo
Gautera”.
Fa un certo effetto questo accenno a luoghi che
conosciamo, in un documento che risale a quasi 1300 anni fa.
Ancora oggi, a tanti anni di distanza, la decisione
adottata dal Re longobardo trova riscontro nella confinazione
diocesana. Così tutte le parrocchie poste sulla sponda sinistra del
Taro e del Gotra, pur appartenendo alla provincia di Parma, fanno
parte della diocesi di Piacenza. E’ il caso, per citarne alcune, di
Borgotaro, Tiedoli, San Pietro, San Martino, Caffaraccia, Brunelli,
Porcigatone, in Comune di Borgotaro e di Campi, Pieve di Campi, San
Quirico, Folta, Tombeto, Codogno, Cacciarasca, Groppo e Montegroppo
in Comune di Albareto.
Per contro le parrocchie di Albareto, Gotra, Buzzò,
Valdena, Baselica, Belforte e Gorro, poste sulla destra dei due corsi
d’acqua appartengono a diocesi diverse da quella piacentina.
Il documento di Pentarido ci fornisce altre
importanti informazioni sulla zona perché riferisce che la
controversia venne risolta in base alle indicazioni fornite da
anziani pastori che conducevano per quei luoghi mandrie di porci
selvatici. Non si fa quindi riferimento a singoli proprietari o a
confini segnati con termini, ma a porcari che sembrano muoversi
liberamente in terreni di proprietà comune.
E’ presumibile che allora buona parte della
Valtaro apparisse come un immenso mare di alberi, dove era difficile
muoversi ed orientarsi se non per coloro che vi guidavano i porci
selvatici alla ricerca di ghiande e faggiole. Ed è comunque preziosa
la testimonianza che già allora l’economia legata al bosco avesse
grande importanza. Non si spiegherebbe altrimenti una lite di tale
durata che rese necessario l’intervento personale del Re.
Nel primo medioevo grande incidenza, anche sotto
l’aspetto economico, ebbero gli Enti ecclesiastici particolarmente
ricchi e potenti nella nostra zona, cosicché intorno al mille il
paesaggio cominciò ad animarsi della presenza sempre più fitta di
chiese, oratori, monasteri, ospizi che avevano proprietà ovunque e
intorno ai quali andavano formandosi nuclei abitati.
La necessità di lavorare i terreni spinse sempre
più verso l’alto gli insediamenti e si andavano così formando i
primi nuclei rurali abitati, anche se il paesaggio rimaneva sempre
dominato dalla vastità delle selve.
Questa ampia estensione, quasi del tutto incolta,
era frequentata da cacciatori, boscaioli, pastori, pescatori che
trovavano di che vivere, in queste immense proprietà comuni, in
presenza di una economia ancora primitiva.
Ed invero, qui come altrove, la proprietà
collettiva, ossia il godimento comune dei boschi e dei pascoli, ha
rappresentato per lunghi secoli la fonte essenziale dei mezzi di
sussistenza della gente di montagna.
CARLO MAGNO E IL FEUDALESIMO
Quando i Franchi, guidati da Carlo Magno, spazzarono
via dall’Italia Settentrionale l’intero popolo longobardo,
facendo prigioniero anche il loro Re Desiderio(773-774), cominciò la
lenta trasformazione di quello che poteva dirsi il “modello”
longobardo di società. Il primo risultato di questa lenta
trasformazione fu la sparizione, in tutta la pianura padana, delle
proprietà collettive
L’affermarsi del fenomeno del Feudalesimo, prima e
delle Signorie poi, portò profonde modifiche anche in montagna, al
regime delle proprietà collettive: molte sparirono, altre vennero
assorbite in diversi sistemi economici.
Si salvarono quelle aree, come la nostra, in cui la
povertà delle risorse, forse, scoraggiò la cupidigia dei potenti.
Ma la sopravvivenza da noi delle proprietà comuni
si deve anche alla straordinaria coesione che vi era tra le
“famiglie” longobarde che approfittando dell’interesse che i
Franchi rivolgevano unicamente verso le città e la pianura seppero
sopravvivere alla disfatta, rimanendo unite e quasi isolate tra i
monti, conservando tradizioni e costumi ai quali anche la nostra
gente si era assuefatta.
Numerosi toponimi che si riscontrano nelle valli del
Taro e del Ceno comprovano questa presenza. A Bardi è citata una
“silva arimannorum”, mentre “il nome stesso di Bardi
coincide con il nome etnico dei Longobardi1”.
Così nelle carte medioevali dell’Archivio della cattedrale di Piacenza, provenienti da Bardi, Varsi e Vianino, leggiamo nomi prettamente longobardi: Romoald, Ansoald, Auda, Willipert, Willimo ecc.
Negli atti di un processo databile in uno degli anni
dall’878 all’884, ventun uomini di Bedonia dichiarano
pubblicamente di essere liberi di nascita e non servi di una grande
azienda di Bedonia per la quale lavorano. La protesta risulta non
fondata e i poveracci debbono accettare la condizione servile. Ma non
è tanto il risultato del processo che qui ci interessa, quanto il
fatto che a cento anni dall’avvento dei Franchi i nomi dei
ricorrenti siano ancora di chiara matrice longobarda. Nel documento,
infatti, si elencano i seguenti nomi:Wilperto, Angelberto, Leoprando,
Gauso, Alperto, Suniverto, Wilprando, Magiverto, Ingeverto,
Angelberto ecc.
Scrive Fumagalli2:
“La grande proprietà fondiaria, affermatasi vigorosamente nella
collina e soprattutto nella pianura, rappresentò nelle montagne un
fenomeno contenuto, limitato dalla resistenza della piccola e media
proprietà. La stessa natura disagiata del territorio montano, le sue
asperità, le sue balze, le ripide coste, le groppe strette e
allungate dei rilievi non offrivano spazi ampi, quelle distese
aperte, piane e compatte che invece la pianura prestava all’impianto
delle grandi tenute agricole. Se sul monte i signori del cosiddetto
“secolo di ferro” avevano le loro fortezze più sicure e
temibili, gli stessi solo nella pianura tendevano ad accumulare le
corti più redditizie, estese migliaia di ettari.
La persistenza massiccia della media e piccola
proprietà in montagna significò qui una continuità intramontabile
e più forte che altrove della folla degli uomini liberi, quelli che
vengono detti non di rado nei documenti “arimanni”. Noi li
vediamo stretti intorno ai loro beni comuni, come alla “selva degli
arimanni” ricordata nell’atto di acquisto del castello di Bardi…”
L’IMPERATORE FEDERICO II
Ad interrompere l’uso pacifico delle proprietà
comuni intervenne l’Imperatore Federico II, il quale passando per
Pontremoli nel luglio del 1226 “ fu ivi da’ Pontremolesi
accolto con sommo onore e singolare dimostrazione d’allegrezza onde
per ricompensa concesse alla comunità il libero possesso di tutta la
Giurisdizione co’ suoi confini, ed altre grazie3…”
In realtà l’Imperatore, male informato o
ingannato da quei di Pontremoli, con il suo privilegio4
attribuiva a quel comune, per quanto riguarda la parte che interessa
il valtarese, tutto il territorio compreso “…a Monte Rotondo
et a Monte Goteri intra versus eundem locum Pontremuli: item a loco
illo citra qui dicitur Capra Morta, et a fumine Tarodine citra, sicut
dividuntur terrae Placentinorum a terris Communis Pontremuli prout
terras ipsas per prenominatos fines iuste hactenus tenuisse
noscuntur…”. Il che tradotto suona così: “ Confermiamo
a loro e agli eredi e ai loro successori tutte le terre che sono
divise da questi confini…dal monte Rotondo e dal monte Gottero
verso il luogo stesso di Pontremoli: ugualmente da lì fino al di qua
del luogo detto Capra Morta e al di qua del fiume Tarodine…”.
I Pontremolesi venivano quindi autorizzati a godere
delle selve poste ben al di là della tradizionale linea di confine
situata lungo il crinale, ad acqua pendente.
Il riferimento, alquanto vago, al torrente Tarodine,
affluente del fiume Taro, senza precisarne un punto di riferimento,
forniva il pretesto ai Pontremolesi di spingersi per qualche
chilometro nel cuore della giurisdizione di Borgotaro. Ciò “ diede
origine ad una infinità di discordie e di dissenzioni che si
andarono pericolosamente acuendo allorché all’interesse di pochi
villaggi si venne ad aggiungere quello della giurisdizione di due
stati: il Ducato di Parma e il Granducato di Toscana5”.
Nel frattempo mentre nelle zone della collina e della pianura, per la loro migliore adattabilità ad essere coltivate, si andava affermando un’economia sempre più agricola, i territori montani sempre più si chiudevano in difesa delle loro tradizioni e modi di vita.
Così da una parte s’andavano formando le grandi
proprietà fondiarie, mentre da noi il fenomeno era contenuto dalla
resistenza opposta dai piccoli proprietari che si sottrassero alle
avide attenzioni dei vari signorotti. Ciò favorì il mantenimento
dei beni comuni con grande beneficio delle nostre popolazioni.
Significativa è, a tal proposito, una sentenza
emessa nel 1351 da Galeazzo Visconti, Duca di Milano, a quel tempo
signore tanto della terra del Borgo Val di Taro, quanto di quella di
Pontremoli in Toscana, confinanti tra loro, come s’è detto, lungo
il crinale dell’Appennino.
Per dirimere l’ormai ricorrente e secolare lite
tra le due popolazioni, così si esprime la sentenza: “…cum
inter communes et homines praedictae terrae nostrae Pontremolui, ex
una parte et habitatores terrae nostrae Burgi Vallis Tari ex altera,
pluriers temporibus retroactis fuerint ortae discordiae et adhuc
vigeant et maxime occasione finium inter utramque terram
existentium…” e così decide “…quod homines Pontremoli
et districtus habeant et habere debeant usum silvae seu boschi de
Tocherio, quantucunque sit, ita quod possint incidere, pascolare,
laborare, buscare et lignamina estrahere de dicta silva seu boscho de
Tocherio ad suam liberam voluntatem6…”
La qual sentenza non poteva certamente riguardare
una lite confinaria di carattere amministrativo, in quanto il Duca
era Signore delle due Giurisdizioni, e inoltre si fa preciso
riferimento alle due parti in causa: “communes et homines
Pontremoli, ex una parte” e “habitatores…Burgi Vallis
Tari, ex altera…” con ciò risultando chiaro che il Duca
interveniva a regolamentare l’uso della proprietà collettiva tra
due popolazioni confinanti e non si citano singoli proprietari.
Infatti con la sentenza si giungeva a permettere ai
Pontremolesi di varcare i limiti della loro giurisdizione per godere
dei boschi di Tocherio benché questi ultimi fossero collocati nel
territorio della giurisdizione borgotarese.
E’ interessante notare anche la precisione con la
quale, nella sentenza, si enumerano le attività che si potevano
esplicare nelle comunalie: tagliare, pascolare, lavorare, “sramare”,
far legna. Par di leggere la Tavola bronzea di Valpolcevera di
millecinquecento anni prima!
I FIESCHI
Nei Capitoli aggiuntivi agli Statuti della Comunità
di Borgo Val di Taro7 si
legge che nel 1539 due rappresentanti della stessa, nel presentare al
Principe Luigi Fieschi alcune richieste chiedevano, tra l’altro,
che le ville potessero nelle loro Comunalie(in earum communibus o
communionibus) pascolare e che non fosse concesso alle ville di
far pascolare bestie “extranee” in dette Comunalie.
Rispondeva il principe: “ Quod ville possint
pascolare secondum consuetum nihil ex consuetudine innovetur et quod
bestie extere non conducatur placet et conceditur ”.
Il Principe rispondeva quindi che le ville potevano
pascolare secondo consuetudine e che non era permesso introdurre usi
nuovi in contrasto con tale consuetudine. E aggiungeva che le bestie
estranee non si potevano condurre.
Dal che si può dedurre come a quei tempi la
consuetudine fosse la sola norma che veniva praticata nel godimento
delle proprietà comuni di quei monti. E significativa, a tal
proposito, è la risposta che il Principe Fieschi dà ai
rappresentanti della Comunità di Borgotaro, lasciando chiaramente
capire che da parte sua non vi è intenzione alcuna di andare a
modificare quelle che erano le consuetudini in vigore.
Risale a qualche anno dopo, una testimonianza
relativa alla presenza della Comunalia di Volpara, nel vicino Comune
di Bedonia. In un atto steso dal notaio Giacomo Scopesi, tra gli anni
1540 e 15468,
si può leggere: “Comunagia Vulparia. Terrae
et proprietas gerbidae, bojive et boschivae quae aduc tenentur et
possidentur in comunione coniuncta et indivisim per homines de villa
Vulparia…” Si fa riferimento, quindi, alla Comunalia
di Volpara e si precisa che le terre e i boschi sono posseduti in
“comunione coniuncta” e per indiviso dagli uomini di
quella frazione. A dimostrazione che nonostante il susseguirsi in
zona della presenza di diversi Principi, Duchi o Signori(Landi,
Fieschi, Visconti, Sforza ecc.) sempre furono lasciati in godimento
agli abitanti delle varie ville quei terreni che costituiscono le
odierne comunalie. Emerge altresì come i vari signori si siano ben
guardati dal regolamentarne l’uso, affidandosi invece alle
consuetudini. Anche se ciò contribuì al sorgere, quasi ovunque, di
liti e questioni tra ville diverse, specialmente là dove i confini
non erano naturali e quindi dubbio diveniva il possesso.
I FARNESE
Quando, dopo il Concilio di Trento, cominciarono a costituirsi le prime parrocchie, i beni comuni posti all’interno dei confini delle stesse, venivano come svincolati dalla grande proprietà comune, di modo che gli abitanti di ogni parrocchia riconoscevano e godevano i propri e gli abitanti dell’una non avevano più diritti nei beni dell’altra, come dimostra il documento relativo alla Comunalia di Volpara.
Nel corso del XVII secolo ripresero spinta le
controversie relative ai confini tra Pontremolesi, e Zeraschi da una
parte e Borghigiani dall’altra, specie nelle zone di competenza dei
frazionisti di Pontolo, Valdena, Buzzò e Albareto.
Le violenze, le rapine, le distruzioni, gli incendi
messi in atto dall’una e l’altra parte furono tali da indurre
Padre Paolo Segneri, famoso predicatore di missioni, ad intervenire.
Il Gesuita si trovava a predicare in Valtaro9
e notando quale fonte di continue perturbazioni ed inimicizie fosse
tale contesa, giovandosi della non poca influenza ch’egli era in
grado di esercitare nei confronti del Duca di Parma e del Granduca di
Toscana, propose ai due l’idea di ricorrere ad un arbitrato,
considerato che non erano in grado di dirimere la questione.
Alla fine, dopo varie resistenze, i due accettarono
e l’arbitrato venne poi affidato alla Serenissima Repubblica di
Venezia10 La sentenza venne
emessa nel 1689, dopo due anni di istruttoria, ma alla fine il Senato
veneziano decise a favore delle ragioni dei Borghigiani.
Al di là dei nuovi confini tracciati in base alla sentenza, è interessante qui riportare le parole con le quali Ranuccio Farnese, Duca di Parma e nostro principe, portava a conoscenza del Commissario di Borgotaro l’esito favorevole dell’arbitrato.11
Scriveva il Duca: “…Potrete aggiungere a
cotesta Comunità che saremo sempre ugualmente disposti a sostenere
ogni loro diritto ad egual costo, et a pari impegno per dar sempre a
cotesti amati sudditi ogni più vivo contrassegno della nostra
benevolenza…”.
Dal che si deduce che in discussione non erano tanto
gli interessi territoriali del Ducato che qualche fetta di bosco non
avrebbe certamente intaccato, ma i diritti degli uomini di Pontolo,
Valdena, Buzzò e Albareto a godere, come sempre era avvenuto, delle
loro proprietà comuni, senza dover dividere tale godimento con le
popolazioni d’oltre crinale.
UN DOCUMENTO SECENTESCO
Un importante documento relativo alla Comunalia di
Pontolo, viene riportato dal parroco del tempo Gian Franco Varsi nel
suo censuale. Si tratta di un atto notarile, datato 18 marzo 1679,
che riferisce come gli abitanti di quella villa, si siano riuniti in
assemblea, per “decidere gli infrascritti capitoli, transazioni,
patti e accordi”.
Tra i vari punti approvati, in uno si dice:
“Che alcuno forestiere, che di presente habita
nella ditta Villa, e nell’avvenire vi habiterà, non possa
lavorare, nè intrare nelle Comunaglie di detta Villa, e questo sotto
pena di quattro scudi d’oro12…”
Dal che si può intuire che non vi fosse allora un
regolamento e che il diritto ad “intrare” nelle comunalie fosse
quanto meno contestato anche ad alcuni abitanti della villa.
Infatti i presenti all’atto notarile “affermano
e protestano che sono e rappresentano la parte maggiore e più sana
di detta Villa, e che al presente non vi è alcun altro in detto
luogo che possa essere comodamente convocato”.
Le casate presenti erano 13 e vale la pena citarle: Mortà(Mortali), Molinari, Belli, Zanoni, Morelli, Orlandazzi, Stabielli, Arioli, Cacchiani, Zucconi, Delnevo, Baldini, Della Pina ed è chiaro che si ritengono il nucleo storico della frazione e per ciò unici ad avere diritto a sfruttare le comunalie.
Nel 1803, il Parroco, al quale era stata negata
l’autorizzazione ad entrare nelle comunalie per prelevare legname
da servire per la chiesa, prende spunto da questo atto notarile per
contestare la decisione delle famiglie “storiche”. Scrive che
delle tredici casate di allora, ne sono rimaste presenti nella
frazione soltanto sette. Sei casate sono invece scomparse.
Ora, in base a quell’atto, soltanto sette famiglie
avrebbero diritto alle comunalie. E se ne fosse rimasta presente una
sola, forse soltanto a questa spetterebbe il diritto di entrarvi? E
come si giustificherebbe il nome “comunalia” con il fatto che una
sola famiglia godrebbe di tale diritto?
Il Parroco fa poi presente che, in realtà,
all’epoca(1803) c’erano altre casate che pretendevano di aver
diritto, ossia: Celi, Accorsini, Costella, Granelli, Brandini,
Camisa, Spagnoli, Piscina. Nessuno si opponeva e invece si negava il
diritto al Parroco.
Come si vede i problemi legati a chi avesse o meno
diritto all’accesso alle comunalie non erano pochi.
Frequenti erano anche i dissidi con gli abitanti
d’oltre crinale che spesso, come dimostra la mappa, non
disdegnavano di oltrepassare i confini per sfruttare anche terre
d’altri.
L’IMPERO FRANCESE
All’inizio dell’Ottocento vi fu un serio
tentativo di porre fine all’esistenza stessa delle Comunalie.
Come si sa, Napoleone Bonaparte nel 1804 divenne
Imperatore dei Francesi e cominciò a rimodellare l’Italia secondo
suoi disegni particolari.
Nel 1805, per ragioni strategiche, staccò
Borgotaro, Compiano e Bardi dal territorio dell’ex Ducato di Parma,
per incorporarli nell’Impero Francese, assegnandoli al Dipartimento
degli Appennini. Da quel momento e fino alla caduta di
Napoleone(1814), i borgotaresi divennero cittadini francesi a tutti
gli effetti.
Il Dipartimento degli Appennini aveva la Prefettura
a Chiavari e la Sottoprefettura a Borgotaro.
Ma i mutamenti non si fermarono qui in quanto
Napoleone diede nuovi confini ai comuni esistenti, e ne creò di
nuovi. Venne infatti costituita la “commune” di Valdena che
comprendeva tutti i territori posti sulla destra del Taro che oggi
appartengono ai Comuni di Albareto e Borgotaro, con esclusione di
quella parte che oggi forma le frazioni di Belforte e Gorro, allora
nella giurisdizione di Berceto.
Primo “Maire”, ossia Sindaco, del Comune di
Valdena fu un certo Luigi Barbieri il quale può essere considerato,
alla luce dei documenti che si conoscono, il salvatore delle
Comunalie.
Correva l’anno 1807, quando l’Amministrazione Generale delle Foreste Francesi, rappresentata in loco dal Sotto-Ispettore Giovanni Alpi, sostenne che tutta la fascia boschiva compresa tra il monte Molinatico e il Centocroci fosse di proprietà della camera Ducale di Parma e quindi, come tale, dovesse passare direttamente al Demanio Imperiale Francese. Ne prese, pertanto, possesso così che chi volle utilizzare quei boschi dovette pagare un affitto per i pascoli o una somma a seconda del quantitativo, per chi voleva far legna.
Contro tale arbitrio ricorsero Luigi Barbieri, Maire
del Comune di Valdena e il suo “aggiunto” Domenico Bosi, i quali
presentarono al Prefetto di Chiavari, avente giurisdizione sulla
Valtaro, quattordici “documenti autentici” attestanti i diritti
degli abitanti di quelle frazioni.
Nel ricorso si rivendicava “la proprietà dei
monti cominciando dal torrente Cogena…fino ai confini di Varese
Ligure… proprietà contrastata dall’Amministrazione Generale
delle Acque e Foreste, avendo essa dichiarato i monti Foreste
Imperiali, sottoposto il pascolo ad affitto, privato quelle
popolazioni di un diritto dalle stesse acquisito da parecchi secoli”.
Così il Consiglio di Prefettura di Chiavari il 18
marzo 1809 decretava che “la parte dei Monti Molinatico,
Borgallo e Gotra(forse per Gottero) sul declivio verso
Borgotaro e fino alla loro sommità, cominciando dal torrente
Cogena…è dichiarata una proprietà comunale e particolare degli
abitanti delle diverse parrocchie…come è stata considerata da
parecchi secoli fino al presente, senza la menoma contraddizione”.
Il 18 gennaio 1810, al sottoprefetto di Pontremoli13
perveniva da Parigi una comunicazione dal Ministro delle Finanze
francese, Ledae U. Faite, nella quale si diceva: “Voi m’avete
comunicato due decreti fatti dal Consiglio di Prefettura del vostro
Dipartimento con i quali i Comuni di Valdena e De Sopra la
Croce(Tornolo) sono stati mantenuti nel possesso di una porzione di
boschi considerevole. I documenti presentati da questi comuni
all’appoggio dei loro reclami giustificano a sufficienza i loro
diritti al possesso di questi boschi…”.
Si può tranquillamente affermare che se mai nel
passato le Comunalie avevano corso un così serio pericolo, è pur
vero che mai i frazionisti ebbero un riconoscimento tanto limpido e
ufficiale dei loro diritti.
Lo scampato pericolo, il successivo crollo del
severo regime napoleonico e il conseguente mutamento delle leggi,
sembrarono favorire per alcuni anni la mancata osservanza delle
antiche consuetudini e del rispetto dovuto a quelle proprietà.
Don Tommaso Grilli scrive che “la parola dei
Sindaci non era più efficace a garantire i prodotti agli agricoltori
di quei terreni indivisi; molti volendo godere più degli altri si
facevano lecito tagliare anche piante fruttifere e commettere altri
abusi…non vi era via legale per impedire questi disordini, poiché
gli incolpati addicevano in loro difesa il diritto di condominio,me
l’autorità giudiziaria tornava inutile, ed anzi dannosa perché
assolti, rendevansi più baldanzosi ed insolenti14”.
Questo stato di cose spinse i Comuni di Borgotaro e
Albareto a dar vita, nella prima metà dell’ottocento, ad apposite
Commissioni Amministratrici per ogni Comunalia nel tentativo di
ottenere un più corretto uso delle proprietà comuni.
IL REGNO D’ITALIA
In seguito, con il formarsi del Regno d’Italia,
venne approvata una legge15
con la quale sembrava possibile regolamentare in modo omogeneo
e definitivo la questione. Enormi furono le difficoltà incontrate,
non solo perché non tutti concordavano sulla applicabilità della
legge alle Comunalie, ma anche a causa delle differenti consuetudini
in vigore nelle varie frazioni.
Ne sortirono, non senza fatica e contrasti,
regolamenti diversi. In alcuni (Baselica, Groppo, Montegroppo ecc.)
vennero considerati utenti e quindi aventi diritto, i capi famiglia
di tutti i nuclei aventi storicamente residenza abituale nel
territorio della frazione; in altri(San Vincenzo e Rovinaglia) venne
previsto di ammettere al godimento dei beni comuni anche le nuove
famiglie divenute proprietarie purché residenti nella frazione. In
altri casi vennero considerati utenti anche i possidenti della
frazione, benché non vi risiedessero più.
Per quanto invece riguardava le modalità di
godimento, in genere i regolamenti prevedevano che ogni utente avesse
diritto alla legna da ardere, al legname da lavoro per i fondi e la
casa, e al pascolo.
Prevedevano anche, quasi tutti, la possibilità di
affittare i tagli periodici di legname, la raccolta delle castagne,
alcuni coltivi, prato e pascoli, per poi dividere il ricavato tra gli
utenti.
Ogni utente aveva poi l’obbligo di concorrere nel
pagamento delle imposte.
Nel 1957 si costituiva il Consorzio delle Comunalie
Parmensi, che oggi ha sede in Borgotaro, al quale aderiscono sedici
Comunalie.
Note
(1) G.Petracco Sicari, Valtaro e
Valceno nell’Altomedioevo, Milano, 1979
(2) V.Fumagalli, Valtaro e Valceno nell’Altomedioevo, Milano, 1979
(3) Bernardino Campi, Memorie storiche della città di Pontremoli, Manoscritto del XVII° sec.
(4) Privilegio di Federico II, tratto dallo Statuto del Comune di Pontremoli.
In nomine
Sanctae Individuae Trinitatis Fridericus II, Divina favente Clementia
Romanorum Imperator semper Augustus, Jerusalem et Sicilie Rex. Decet
Imperiali excellentiae dignitate vota suorum fidelium favorabiliter
prosegui, et ea sic effectu proseguente complere, quod axhibita
ipsius gratia presentibus sit ad gaudium, et posteris ad exemplum.
Universis igitur fidelibus Imperii tam presentibus, quam futuris,
volumus esse notum, quod Nos attendentes fidem puram et devotionem
sinceram, quam Comune Pontis Tremuli, fideles Nostri, erga Nos et
Imperium sempre habuisse dignoscuntur: nihilominus etiam advertentes
eorum Fidelia satis et grata servitia, quae Nobis et Imperio semper
exhibuerunt, et quae in antea de bono in melis potuerunt exibere;
confirmamus eis, et haeredibus, et successoribus eorum in perpetuum,
omnes terras suas, quae his finibus distinguuntur; videlicet a fauce
Cise, et a fauce Montis de Cirono infra versus Burgum Pontremuli, et
ab utroque flumine Capriae supra, sicut dividuntur Terrae Marchionum
Malaspinae a Terris Communis Pontremuli per illa duo fulmina, et a
Monte Rotondo et a Monte Gottari citra versus eundem locum
Pontremuli; item a loco illo sicut citra, qui dicitur Capra Morta, et
a flumine Tarodanae citra, sicut dividuntur Terrae Placentinorum a
terris Communis Pontremuli, et a Cruce ferrea infra versus eundem
locum Pontremuli, prout Terras ipsas per prenominatos fines, iuste
hactenus tenuisse noscuntur. De abundantiori quoque culminis Nostri
gratia, qua fideles nostros et benemeritos digne consuevimus
prevenire, concedimus, et confirmamus dicto Communi Pontis Tremuli
quidquid Feudi, et benefitii tenere et habere consueverunt ab Imperio
rationabiliter usque modo cum omni jurisditione et honore ad dictum
Commune de jure spectantibus quemadmodum ea omnia per privilegia
Predecessorum Nostrorum Romanorum Imperatorum seu Tegum eidem Communi
concessa fuisse plenius digniscuntur, salva per omnia Imperii
justitia. Mandamus itaque auctoritate praesentis Privilegii, firmiter
statuentes, ut nulla umquam persona alta, vel humilis, ecclesiastica,
vel secularis, in praemissis omnibus dictum Comune Pontremuli contra
praesentem concessionem et cinfirmationem Nostram offendere,
inquietare, vel molestare praesumat; quod qui praesumpserit centum
librarum auri poena incurrat. Quorum medietas Camerae Nostrae, alter
vero passis injuriam persolvantur, ut autem Nostra soipradicta semper
firma et illibata permaneant, praesens privilegium inde fieri, et
sigillo Majestatis Nostrae jussimus communiri. Huius rej testes sunt
Lando venerabilis Reginus Archiepiscopus, Conradus Ysdemerii
Episcopus, frater Tobetanus Episcopus, Rainaldus Dux Spoleti,
Corradus Marchio Malaspina, Thomas Comes Sabaudiae et Marcho in
Italia, Comes Sifridus de Vienna et alii quam plures.
(5)
Giuseppe Micheli, I confini tra Borgotarpo e Pontremoli,
Parma, 1899 (6) Poiché tra i comuni e gli uomini della predetta nostra Terra di Pontremoli da una parte e gli abitanti della nostra Terra del Borgo Val di Taro dall’altra, da molto tempo sono sorte discordie e tuttora permangono in particolare a causa dei confini tra l’una e l’altra terra e decide che gli uomini di Pontremoli e Distretto abbiano e debbano avere l’uso della selva ossia bosco di Tocherio, quantunque sia, così che possano tagliare, pascolare, lavorare, “buscare” ed estrarre legname dalla etta selva ossia bosco di Tocherio a loro volontà”.
(7) D.Calcagno-F.Cellerino, Statuti concessi alla Comunità di Borgo Val di Taro da Giovanni Luigi Fieschi, conte di Lavagna e di San Valentino nel Regno di Napoli, Ammiraglio del re di Francia e dei Genovesi, signore di Borgo Val di Taro, Chiavari, 1999.
(8) Atti notarili da Agosto 1540 al maggio 1545. Vol 1538 pag.158, un tempo presso l’Archivio Notarile di Borgotaro, oggi in Archivio di Stato di Parma
(9) Per la missione di Padre Segneri in Valtaro, cfr. Giacomo Bernardi, Dai Visconti ai Farnese, Borgo Val di Taro, 1994, pagg. 169-173.
(10) Per le vicende legate all’arbitrato della Repubblica di Venezia, cfr. Giacomo Bernardi, Dai Visconti ai Farnese, Borgo Val di Taro 1994, pagg. 175-187
(11) L’intera lettera verrà allegata, come documento n.10, al ricorso presentato contro l’Amm.ne Francese (12) Cfr. Domenico Ponzini, Pontolo e il territorio di Borgo Taro, nel censuale di G.Francesco Varsi(1781-1816),Piacenza, 1994, pagg.75-76
(13) A partire dal 1808 la sede della sottoprefettura passa da Borgotaro a Pontremoli.
(14) Tommaso Grilli, Cenni storici di Albareto di Borgotaro, Borgotaro 1893
(15) Legge Fittoni del 4 agosto 1894
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