domenica 11 agosto 2013

LA VITA, UN TEMPO, A BORGOTARO: Il tempo pasquale

 
 
 
 
PASQUA E LA SETTIMANA SANTA
 
 
Ricordo ancora bene l’impressione che mi faceva tutto quel viola, il colore della tristezza, della
Settimana di Passione.
In chiesa Jacumèin(ma prima di lui ricordo Pepino al campanar’) aveva un gran da fare. Tutte le immagini che rappresentavano il Cristo venivano coperte, così tutti i crocefissi e le immagini sacre. In casa venivano coperti gli specchi.

Forse tra tutti i riti e le manifestazioni varie, questo trionfo del viola era quello che più mi faceva pensare alla morte di Nostro Signore.
Ero chierichetto e ricordo che in quella settimana si cantava poco o nulla in chiesa. I preti mi sembravano più seri del solito.

Certo anche la Via Crucis mi desta ancora ricordi tristi.
Il nostro camminare di chierichetti tutt’attorno alla chiesa con le fermate, ahimè quanto lunghe, ad ognuna delle quattordici stazioni della Via Crucis.
Con in mano la lunga candela infilzata nel candeliere, nella penombra della chiesa, dietro quel nudo crocefisso che il sacerdote imbracciava, mi pareva di salire al Calvario.

Ricordo che ad ogni stazione (a proposito: non esistono più in San Antonino) si faceva una lunga sosta. Il celebrante ne spiegava il significato e poi via con i canti: sempre gli stessi ad ogni stazione, per 14 volte. Canti tristi, in cui si parlava di croce, di morte, di lacrime.

Tanto che a mezzo secolo di distanza li ricordo ancora benissimo.

Stabat mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa
dum pendebat Filium.

E le donne, con la tradizionale buona intonatura delle burgzan’n, rispondevano :

Santa Madre deh voi fate, che le piaghe del Signore
siano impresse nel mio cuore

Mi piaceva ascoltare quei canti, pieni di significati, ma dopo alcune stazioni il braccio che sosteneva il candeliere cominciava a farmi male e allora il mio sguardo correva avanti per vedere quante stazioni rimanessero ancora da visitare.

Il giovedì Santo, poi, giorno in cui si ricorda la “lavanda dei piedi”, era per noi ragazzi un appuntamento molto atteso.
Non so perché tra noi si dicesse:” Incö anuma a bat’ Pilato”(Oggi andiamo a battere Pilato).
Andavamo in coro con dei bastoni e più che seguire la bella cerimonia, attendevamo il momento in cui il campanaro ci avrebbe fatto un segno. Era il momento che aspettavamo e con i bastoni picchiavamo a più non posso sulle panche e su cassette che Jacumèin aveva sistemato.
Più avanti avrei capito che in realtà ad essere “battuto”, anzi fustigato, non era stato Pilato ma Nostro Signore. E quel baccano voleva ricordare quel triste episodio.

Dopo questa cerimonia tacevano anche le campane. “Jan ligà l’campan’n” si diceva.
Chi non ha vissuto quell’esperienza non può capire cosa significasse, allora, il silenzio delle campane.
Si perché la vita era cadenzata dal loro suono.

Suonava la Messa dell’Alba
Il Mezzogiorno
L’Ave Maria della Sera. Ed erano tre momenti cardine della giornata.

Poca gente aveva l’orologio al polso e molti si regolavano col suono delle campane, specie chi lavorava i campi.
Oggi il mezzogiorno suona ancora. Ma è un’ora come tante altre.
Un tempo mezzogiorno era l’ora in cui quasi tutti smettevano di lavorare, abbandonavano i propri attrezzi e rincasavano per pranzare. Guai alla donna di casa se a mezzogiorno non avesse fatto trovare tutto pronto!
Suonavano le campane a morto, ma anche le agonie.

Le agonie suonano anche oggi, se si avvisa la canonica, ma è tanto il rumore che ci siamo creati attorno, che nessuno più riesce a sentirle.
E dal diverso suono delle campane si poteva capire se la persona che stava per morire fosse un uomo, una donna o un bambino.

Fino a qualche decennio fa, quando una persona era in pericolo di morte e aveva ricevuto l’olio santo, suonava la campana di San Domenico per una breve benedizione. La gente abbandonava le case e correva a chiede al Signore il suo aiuto.

Un’altra funzione delle campane era quella di dare l’allarme per un incendio, una rapina, un avvenimento particolare. In quei casi suonava la campana “a martello” e tutti accorrevano all’aperto per rendersi utili.
Suonavano le campane anche quando stava per grandinare e i raccolti erano in pericolo.

Il silenzio delle campane era davvero il segno della partecipazione dell’intera comunità ai Misteri Pasquali.
Al posto delle campane, suonavano l’bataröl’.

La bataröla era uno strano strumento: praticamente un asse in legno, lunga circa un metro, con applicati dei ferri ruotanti. Quando si agitava, ruotandola, la tavola si provocava un forte rumore.
Jacumèin, ma a volte anche noi ragazzi per un breve tratto, faceva il giro del Borgo avvertendo, al posto della campana, che era mezzogiorno. Quante lotte per poter suonare la bataröla!!!

Alla sera del giovedì si potevano visitare i Sepolcri, che a Borgotaro vantano un’antica tradizione per l’accuratezza con cui, ancor oggi, vengono approntati.
A chiusura di tutto questo ciclo veniva la Processione Venerdì Santo. La gente accorreva a Borgotaro anche dalle frazioni. Sui colli attorno al Borgo, i contadini accendevano i falò. Poi…silenzio.


L’esplosione della Pasqua

Si veniva dai quaranta giorni della Quaresima, dalla settimana di Passione. Da digiuni, astinenze. Niente balli, divertimenti….quando ecco esplodere la Pasqua.
Accadeva di sabato. Dice un proverbio: non c’è sabato senza sole. Può far sorridere, ma nei miei ricordi quel sabato speciale mi si presenta sempre splendente, primaverile, con aria tiepida.

L’attesa in giro la sentivi sulla pelle.
Noi ragazzi s’era in vacanza, si giocava per le strade, nelle piazze. Ma il nostro orecchio quel mattino era teso a captare un segnale: quello che indicava che le campane erano state slegate.

Ciò avveniva intorno alle 10,30. Ricordo la gioia con la quale ascoltavamo finalmente le campane, tutte le campane, ritornare al loro ruolo di sempre.
Suonavano quelle del Borgo, rispondevano quelle di Brunelli e giù in valle s’udivano quelle di Pontolo e ovunque era festa.
Noi allora mettevamo fine ai nostri giochi e di corsa ci si lanciava verso la fontana pubblica più vicina.

Le campane suonavano a lungo per permettere a tutti di partecipare a un rito che si ripeteva ogni anno. Quello di bagnarsi la fronte, la gola, le gambe con l’acqua, mentre suonavano le campane. Noi eravamo i primi a bagnarci, ma dietro di noi si formava la fila degli adulti usciti di casa, perché allora pochi avevano l’acqua nelle abitazioni. E alle fontane ci si lamentava con chi indugiava troppo nel bagnarsi nel timore che le campane smettessero di suonare. Dopo di che, il rito non avrebbe più prodotto effetti.

Ognuno aveva una parte particolare del proprio corpo da bagnare. Quella più debole e colpita da un male, da un dolore ecc. L’acqua benedetta avrebbe risanato e prevenuto ogni male.
In campagna a tutto questo si aggiungeva un’altra pratica: quella “d’ ligà l’ piant’. (di legare gli alberi).
Si prendeva un salice, una funicella, un ramo verde e lo si avvolgeva attorno al tronco dell’albero da frutto in fiore. Con quel gesto si voleva che i fiori dai quali sarebbero più avanti nati i frutti, restassero legati all’albero. La loro scomparsa anticipata per gelo o altro avrebbe rovinato il raccolto.


La Pasqua

La vera Pasqua era la Domenica.
Pasqua richiama la Resurrezione di Nostro Signore, innanzi tutto.

Ma poi con sé portava tante altre cose, quanti ricordi che oggi, quando ne parlo coi più giovani, sembrano risalire all’ottocento.
E io a dire: -Guardate ragazzi che io non ho cent’anni.
Non mi credono.

Comunque il mattino uscivamo con tre o quattro uova in tasca. In precedenza erano state colorate immergendo nell’acqua bollente la carta colorata nella quale veniva avvolto quel poco che la mamma acquistava nei negozi.
I colori dominanti erano tre: rosso, blu e giallo. Chi proprio non aveva carta, allora preziosa perché serviva ogni mattina ad accendere la stufa, le aveva nere da far paura. Sì, ricordo ora che i miei amici più poveri le avevano nere.

Con le uova si poteva partecipare a tre giochi.

- Zgürlà l’övu. Si andava in una zona che avesse un poco di pendenza e quindi, a turno, si dava una spinta per far rotolare il proprio uovo. Se durante il percorso l’uovo di uno andava a toccare quello di un altro, quest’ultimo perdeva l’uovo.

- A pounta e cü. Si giocava in due. Uno teneva in pugno il proprio uovo, l’altro lo urtava con il suo. Vinceva l’uovo chi riusciva a rompere quello dell’altro: prima di punta e poi “d’ cü”.

- A tajon. L’uovo veniva messo in piedi a terra appoggiato al muro. Dalla distanza di due passi di lanciavano(di taglio) le monete. Vincevi l’uovo se la moneta si infilzava nell’uovo.

A pensarci sembrerebbe impresa difficilissima, ma allora avevamo occhio per queste cose.
Non vi dico i pianti di chi, dopo poco tempo, aveva perso tutte le uova e doveva accontentarsi di guardare gli altri.

A Pasqua bisognava “spianare”, ossia mettere qualcosa di nuovo. Guai a uscire quel giorno senza un capo nuovo. Fossero le scarpe, la gonna, il vestito, la borsetta, il fazzoletto.
A quei tempi non c’erano grandi possibilità d’acquisto.
E Pasqua diventava il trionfo del bianco, forse più facile da reperire e più a buon mercato.

Le ragazze, quel giorno, vestivano in modo particolarmente ridicolo.
Tutto bianco: le scarpe, la camicia, la gonna, la borsetta, il foulard. E tutte a passeggiare per far notare ciò che si “spianava”.

Quel giorno era il trionfo del bianco anche nelle siepi di biancospino e nei fiori del melo e del pero.. D’altra parte anche l’Agnello, simbolo di Gesù Cristo, richiama il bianco del suo mantello.

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