mercoledì 31 luglio 2013

LEGGENDE: Il nobile, il contadino e le patate..

Il nobile, le patate e il contadino


Adelardo Dosi, nobile pontremolese, s’era alzato di buon mattino e dopo aver scelto il miglior cavallo s’era avviato per la strada che, attraverso il passo del Brattello, conduceva a Borgotaro. Era atteso dalla famiglia Bertucci per via d’un matrimonio ch’era in programma tra rampolli delle due nobili casate.

Il marchese Dosi aveva ben presto lasciato alle sue spalle Pontremoli e stava inerpicandosi lungo le pendici del monte Cucco. La giornata era bella anche se in alto il crinale era avvolto, come capitava spesso, da una densa foschia.

Dopo un’ora di marcia il nobile pontremolese si trovò tra una fitta e umida nebbia. Valicò comunque senza problemi il Brattello e cominciò a scendere con qualche difficoltà verso il Borgo: la strada, ora, altro non era che un sentiero battuto.

D’un tratto s’accorse di non essere più sulla giusta strada. Stava infatti da qualche tempo camminando con il suo cavallo in un bosco di faggi che non ricordava d’aver mai attraversato durante i suoi viaggi.

Voltò il cavallo e provò a ritornare sui suoi passi. Finì in un canalone, mentre la nebbia sempre più s’infittiva.

Pensò allora che l’unica soluzione fosse quella di scendere comunque di quota ed uscire così dalla nebbia che solitamente ristagnava soltanto sul crinale.

Decise quindi di seguire la direzione di un piccolo corso d’acqua ben sapendo che nel Taro o nel Tarodine sarebbe andato sicuramente a finire.

Poco dopo uscì dalla nebbia e si ritrovò in un bosco di castagni secolari. Non riusciva a trovare punti di riferimento in grado di orientarlo, ma tutto ormai era più facile. Spronò il cavallo e affrettò il passo: rischiava, ormai, di far tardi.

Improvvisamente vide in lontananza una casa e ad un centinaio di metri un contadino che stava lavorando di zappa.

Si avvicinò e gridò, con l’arroganza del nobile: - Ehi! Dove mi trovo?

- Ai Vighini – rispose il contadino continuando a cavar patate.

- Mi vuoi indicare la strada per Borgotaro?

Il contadino cercò di spiegarsi, ma forse perché non aveva grande dimestichezza con la lingua italiana, o perché impressionato da quell’apparizione improvvisa, fece un poco di confusione.

Allora il pontremolese temendo di far tardi chiese: - Puoi accompagnarmi?

- Non posso – rispose il contadino – devo terminare di cavare le patate.

- Se tu m’accompagni a Borgotaro ti darò cinque scudi.

- Vi ho detto che non posso. Devo finire questo lavoro.

Il marchese provò a cambiar tono: - Belle quelle patate. Me ne vendereste un sacco? Vorrei donarle alla persona che mi ospiterà al Borgo.

- Ben volentieri – rispose il contadino.

- Quanto vuoi di un sacco?

- Per un sacco, cinque scudi, signore.

- Va bene eccoti cinque scudi. – disse il pontremolese – Però come faccio a portarle a Borgotaro? Mica posso arrivare dai conti Bertucci con un sacco in spalla.

- Per quello ci penso io, signore. Non è da tutti i giorni prendere cinque scudi.

Il contadino riempì il sacco con calma, se lo caricò sulle spalle e cominciò a scendere verso il Borgo. Il marchese Dosi lo seguiva a cavallo.

In un baleno furono a Grifola, poi giù a San Rocco.

Quando furono sul ponte che metteva al Borgo, il Marchese disse: - Ora che mi hai guidato fino a Borgotaro, apri il sacco e getta le patate in Taro.

- No signore – disse il contadino – le patate sono le sue, le ha già pagate.

- Non me ne importa niente delle tue patate. Ti avevo offerto cinque scudi perché tu m’ accompagnassi lungo la strada e non hai accettato. Per la stessa somma hai finito poi per darmi delle patate e fare la strada con un gran peso in spalla. Ora ho avuto quel che volevo: le patate gettale in Taro.

Il contadino slegò il sacco, a malincuore gettò le patate e se ne tornò a casa. 

Da: Giacomo Bernardi: Leggende della Val di Taro,  2006
Illustrazioni di Mario Previ        

martedì 30 luglio 2013

LEGGENDE: La furèsta

La "furèsta"

Erano davvero amici per la pelle Pepino d’la Strolga e Gino d’la Burota. Avevano da poco terminato d’ fa ar suldà per tornare al lavoro solito dal paizan: quello dei loro padri, dei nonni, di veci, da anni annorum.

Giornate fatte di levate mattutine che non sapevi s’ l’era dì o not’; aratro, vanga e zappa a spacà la schèina; taglio di boschi, sfalcio di prati, e poi le vacche: mungerle, portarle a bere, pulirle anca int’ cul postu.

Ogni giorno, sempre così, con lavori che si ripetevano uguali, monotoni ogni anno, a seconda delle stagioni e delle lune. Ma la fatica, quella non cambiava mai.

Verso Natale, quando i grandi lavori erano ormai terminati: raccolte e seccate le castagne, finita la cutüra, misu via al fèin, fatu la ligna, gli impegni diminuivano e la fatica si faceva sentire meno.

Così il sabato sera, meno stanchi del solito, andavano a ballare a l’ustaria dal M’ndicu, giù a Buzzò.

Le loro case, a tiro di voce l’una dall’altra, erano le più vicine al monte, ma le più lontane e scomode per chiunque. Il posto si chiamava Cipalo, ma la gente diceva Sipalu e nessuno mai era riuscito a dare spiegazione a quello strano nome.

Quell’anno, l’inverno s’era fatto sentire presto ma, a dire il vero, a quei tempi le stagioni erano puntuali e rispettavano tempi e proverbi.

 Pr’i Santi la nèiva int’i campi
P’r San Martèin la nèiva int’i camèin.

Così la neve s’era già fatta vedere benché si fosse ai primi di dicembre.

Quella sera Pepino d’la Strolga e Gino d’la Burota s’erano dati appuntamento versu ot’ur giù allo stradone per andare a ballare.

Erano passati poi a Roncola per chiamare Tonino d’la Pansota e la Mariöla. Avevano trovato il primo, non la seconda che aveva preferito scendere al Casello di Gotra con un’atra cumpania.

A Pepino la faccenda non era piaciuta. Era un tipo che perdeva facilmente la calma. Bon cum’al pan, ma guai fargli un torto.

I tre stavano risalendo il sentiero che attraversava il bosco d’ Balèin per raggiungere Buzzò.

Fu Pepino a rompere il silenzio: “Sèinsa dona cum s’ fa?” diceva, sapendo come fosse difficile far ballare le donne del Buzzò.

Gli altri non rispondevano: meglio lasciarlo sfogare.

“Quando saremo al Crocione, piruma cun niètri la Madona e la porteremo a ballare” disse poco dopo.

Gli amici non l’avevano mai visto così arrabbiato e pur non apprezzando la sortita preferirono, p’r via dal p’r via, tacere.

Arrivarono al Cruzon ch’era buio. Era un posto che metteva paura: quasi sempre la gente vi passava di corsa se non era pieno giorno.

Ecco il cimitero con quel cancello che cigolava al vento, davanti la grande croce a ricordo di una famosa Missione e poco più in là il Santuario della Madonna con la statua.

I tre si fecero un rapido segno di croce.

“Allora Madonna vuoi venire con noi a ballare? Avuma pèrsu la Mariola, truvuma Maria”. Così sparlava Pepino e sghignazzava. Forse l’aveva preso il demonio, pensava Gino d’la Burota, che si limitò a dirgli: “Lasa pèrd’.

Ora la strada aveva ripreso a scendere e, oltrepassata la fontana, sentirono il suono della fisarmonica: Mariu d’l’Anna stava eseguendo un valzer.

Entrarono: c’era molta confusione. Presero posto a un tavolo e ordinarono una meza d’rusu. Alcune coppie stavano piroettando al ritmo del valzer.

Terminato il pezzo, tutti si erano ritirati ai tavoli o alle panche. In quel momento si sentì battere alla porta.

Paolino d’la Bügandera, ch'era vicino all'ingresso, s’alzò e aprì. Gli si presentò una bella ragazza: alta e bionda: “una furèsta”, pensò.

La ragazza non entrò e chiese di Pepino d’la Strolga.

Paolino la invitò ad entrare, perché sì, Pepino c’era.

Lei rifiutò l’offerta: - Per favore, fallo uscire un momento”.

Pepino fu avvisato e subito uscì, richiudendo la porta.

Paolino cominciò a raccontare la cosa: “Ch’ fiola, ragasi, mai vista una così bella!”

E tutti a strolicare come e dove Pepino avesse potuto conoscere una donna del genere…

E poiché non rientrava, vennero avanzate le ipotesi più ghiotte…

Laslu fa lü”, sentenziò ar M’ndicu, che in quel momento d'euforia aveva visto aumentare le richieste di vino.

Gino d’la Burota rincasò alle due e subito s’infilò a letto, l’indomani si sarebbe alzato più tardi del solito. La mamma, come di consueto in quelle occasioni, lo avrebbe sostituito nel lavoro della stalla.

Alle sei, mentre Anna d’la Burota si trovava sull’aia di buon’ora, vide arrivare la Strolga.

Non era una cosa usuale: “Cuz’ gh’è mai?”, pensò.

“Non sono ancora tornati i fio?”

La Burota stralunò gli occhi. Rientrò di corsa, salì la scala di legno e sentì, orecchiando alla porta, il respiro di Gino.

Ritornò sull’aia :”Al me Gino u gh’è e al to fiö?

Pepino non è tornato, al letu l'è ancura belu fatu!

La Burota rientrò, risalì la scala e aprì la porta.

Gino brontolò: “T’è zamò chi!

La Strolga dice che Pepino non è ancora tornato. Al letu l’è ancura bèlu fatu”.

Beatu lü, ieri sera è venuta una dona furèsta a cercarlo e lui se ne è andato con lei. Dove non lo so, ma credo che si sarà divertito pü d’ mi cun cul’ sgrozl’ dal Büzò”.

La Burota ridiscese sull’aia e rassicurò la Strolga che sentenziò: “E varda cul Pepino, chi l’avré ditu?” e se ne andò senza aggiungere altro perché anca le l’era vüna umbruza cum’al fiö.

Quel giorno Pepino non tornò e gnanca al dì dopu. Lo attesero invano giorni, mesi e anni. Qualcuno cominciò a dire che se n’era andato in città con cula bèla furèsta; Gino, da parte sua, non volle mai più parlare di quella sera e quando gli capitava di passare al Cruzon, vicino al Cimitero e al Santuario, si faceva ripetuti segni di croce: la Madonna della statua era bella, alta e bionda…cum’ la dona furèsta, tal’ e qual’".
Da: Giacomo Bernardi, Leggende della Val di Taro, 2006. Illustrazioni di Mario Previ.

lunedì 29 luglio 2013

ERMANNO STRADELLI: Mayra Rayra

IL FIGLIO DEL GRANDE SERPENTE


Ogni volta che sento parlare di Ermanno Stradelli, mi meraviglio sempre più del fatto che i Borgotaresi non abbiano mai saputo nulla di questo grande esploratore dell'Amazzonia. E' anche strano che appassionati e attenti cultori di storia locale come Pietro Rameri, Tullio Maestri e il Sen. Francesco Marchini Camia, non ne abbiano mai parlato. Eppure il conte Ermanno Stradelli raggiunse il massimo della sua notorietà nei primi anni del novecento.

Lo scorso anno a Genova si sono svolti i festeggiamenti per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America, e di Ermanno Stradelli si è parlato molto e in diverse occasioni. Sì, perché questo personaggio, nato a Borgotaro nel 1852, partì da qui nel 1878 per un viaggio che, salvo qualche sosta, l'impegnò tutta la vita.

La sua meta fu la foresta amazzonica; l'obiettivo non quello di scoprirvi ricchezze per portarvi poi la "cultura" europea, ma quello di conoscere quei popoli, i loro usi, la loro cultura, i modi di vivere.

Studiò quel territorio, il clima, raccolse frecce, amuleti(materiale esposto a Genova nel 1892 in occasione della grande Mostra Colombiana), classificò insetti, si prodigò nel curare gli indigeni ammalati.

Dopo una breve sosta in Italia, ritornò nell'Amazzonia dimorando tra i "siringueros" per studiarne i costumi. Intraprese poi un'altra spedizione lunga e rischiosa che lo porterà a contatto con le tribù dei Tarnà e dei Tucanos. Diventa uno dei pochi bianchi accreditati dagli indios, tanto da essere affettuosamente chiamato "Mayra raira", figlio del grande serpente(il Rio delle Amazzoni).

Nel 1921 cessa le sue spedizioni e dietro le insistenze del fratello, decide di rientrare in Italia. Prima di partire si sottopose alla prescritta visita medica in seguito alla quale venne trattenuto presso il lebbrosario di Umirisal dove, isolato in un bungalow in compagnia dei suoi libri, vivrà in assoluta povertà fino alla morte, avvenuta il 24 marzo 1926.

Se è vero che la scoperta dell'America è stata occasione spesso di genocidi da parte dei bianchi, noi Borgotaresi possiamo vantarci del nostro concittadino che andò come uomo di pace e di scienza nel tentativo di far capire al mondo che quelle tribù, considerate "primitive", nascondevano valori, tradizioni, culture degne di rispetto e considerazione.

Giacomo Bernardi

(Dal Lünariu burg'zan 1993)

Leggende: Al can d' San Dum'n'gu

Al Can d' San Dum'n'gu

E come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute

che, ne la madre, lei fece profeta
.
Dante, Par. XII (59-61)


Avevo diciassette anni quando, con la mia famiglia, mi trasferii da Via Nervesa alla nuova abitazione di via Battisti.
La mia cameretta, tramite un balconcino, dava direttamente sulla via, proprio di fronte alla lunga fiancata della chiesa di San Domenico, un tempo convento dei Padri Domenicani (Ordo Dominicanorum).

Non era passato che qualche mese e già in più d’un’occasione mi era accaduto, nel pieno della notte, di essere svegliato dal tintinnare di un campanellino, di quelli che s’appendono al collare dei cani.
Che potesse passare qualche cane randagio non era strano a quei tempi, strano, invece, che il suono fosse sempre lo stesso e che il fenomeno si ripetesse ad una cert’ora della notte.

Una sera, mentre stavo rincasando verso la mezzanotte, mi capitò di percepire il solito tinnire del campanellino.
Finalmente potrò scoprire il cane”, pensai. Ma, nonostante mi voltassi a destra e a manca, non riuscivo a scorgere nulla. Eppure il suono si stava piano piano attenuando come stesse allontanandosi da me.

T’ l’è s’ntì?”, disse una voce che mi fece sobbalzare.
Guardai verso l’alto e vidi la “Ravouna vecia” affacciata alla finestra del primo piano.
”, risposi.
J’èin i so dì e la so ura”, aggiunse.
Davvero? Ma cos’era?”, chiesi.
L’è al can d’ San Dum’n’gu”, rispose.
Ma io non ho visto nessun cane”.
E chi l’ha mai vistu; u s’ sèinta e basta, car’al me bèlu”, sentenziò con un tono che non ammetteva dubbi.
Non era facile incontrarla durante il giorno. Usciva raramente, così cercai di approfittare dell’occasione e chiesi: “Perché ha detto che sono i suoi giorni e la sua ora?

P’erché t’la sèinti d’utuvr’, ch’ l’è al mèiz’ d’la Madona dal Ruzariu e p’r l’ fest’ di santi ch’ gh’è in San Dum’n’gu, e sèimpr’ versu mezanot’. Mi vo a letu”. E chiuse la finestra.

M’aveva preso un po’ di paura e mi vergognai al pensiero che fino a quel momento era stata la presenza della vecchia a tenermi tranquillo. Infilai il portone per salire le scale di corsa, come mai m’era capitato.
Da quella sera, ogni volta che l’episodio si ripeteva, mi piaceva sentirmi depositario di un segreto che la “Ravouna”, ormai scomparsa, m’aveva confidato. Soltanto una volta sbirciai dal balcone per controllare la presenza del cane, ma non mi riuscì di vederlo. Cominciai a chiedermi quale legame potesse esistere tra un cane e San Domenico.

Una prima risposta mi venne dalla scuola.
Proprio quell’anno era in programma lo studio del Paradiso e quando il professor Ranocchia commentò, con straordinaria bravura, il canto XII che Dante aveva voluto dedicare a San Domenico, il legame tra il cane e il Santo cominciò a trovare ampie spiegazioni.

Infatti, in nota al testo dantesco, si leggeva che la beata Giovanna, sua madre, raccontava di una visione che aveva avuto, prima del parto, in cui vide se stessa dare alla luce un piccolo cane dal mantello bianco e nero che teneva in bocca una torcia fiammeggiante con la quale incendiava il mondo, facendo conoscere la Parola Divina. L’accenno al cane mi riempì di soddisfazione: finalmente avevo trovato un fondamento al mio segreto.

Non so descrivervi la mia meraviglia, quando il professore aggiunse che i seguaci dell’ordine religioso fondato da San Domenico, in latino Ordo Dominicanorum, (Domini cani = cani del Signore) si distingueranno per la loro azione di Padri Predicatori che, come cani fedeli, porteranno per il mondo la parola della fede. Accennò inoltre all’abito talare bianco e nero, indossato dai Domenicani, i colori stessi del cane apparso in visione alla beata Giovanna.

Ormai la storia “dal can d’ San Dum’n’gu” aveva ben più d’un fondamento e gli amici non avrebbero più riso ai miei racconti.
Ma in testa avevo sempre le parole della “Ravouna”, quando aveva fatto riferimento alla ricorrenza di certi santi presenti nella chiesa di San Domenico.

Così, in più occasioni, cercai di ricavare notizie dall’attenta osservazione delle tele appese alle pareti della chiesa, senza trovare risposte adeguate.
D’altra parte, a quei tempi, non esistevano quelle pubblicazioni che oggi sono in grado di guidare un giovane alla scoperta delle opere d’arte presenti in Borgotaro. Così dovetti abbandonare la ricerca.

Tuttavia mi riuscì di scoprire l’immagine del cane, con la solita fiaccola in bocca, in tre punti diversi della chiesa: scolpito su una lapide sepolcrale dell’antica Confraternita del Santo Rosario, datata 1623; in un grande affresco situato sulla volta della sacrestia, dove è riprodotto col manto bianco e nero, ai piedi di San Domenico; in un dipinto che si trova appoggiato sulla cimasa dell’altare di stucco dell’attuale sacrestia.

Chissà perché, soltanto in età avanzata, mi capitò di scoprire gli otto ovali situati alle pareti del coro. In ognuno viene rappresentato un Santo che indossa il manto bianco e nero, proprio dei Domenicani.
Mi è bastato scorrere una guida artistica e scoprire che si trattava di Santi Domenicani: Pietro Martire, Raimondo di Penyafort, Ambrogio da Siena, Alberto Magno, Antonino Vescovo, Luigi Bertran, Tommaso d’Aquino e naturalmente Domenico, rappresentato con il giglio.

Credo che i “i Santi ch’ gh’è in San Dum’n’gu”, quelli citati dalla “Ravouna”, siano questi.

Ma ormai, da molti anni, non abito più in quella via e non mi è possibile affermare se nelle giornate in cui il calendario ricorda quei Santi, “al can d’ San Dum’n’gu” faccia tinnire, come un tempo, il suo campanellino.

Antifascisti borgotaresi nelle carte di Polizia

Gli antifascisti borgotaresi nelle carte di Polizia (1922-1943).

Nome Luogo e data nascita Data apertura Livello pericolosità

Acerbis Giuseppe Borgotaro 23.8.1898 28.2.923 B

Alzapiedi Serafino Borgotaro 26.2.1910 10.9.934 B

Bardini Eugenio Borgotaro 10.6.1891 20.11.926 C

Barusi Ugo Borgotaro 7.12.1902 10.4.924 (1.1.1935) C

Bianchinotti Marco Borgotaro 13.7.1900 14.7.928 (10.3.1935) C

Bocci Giuseppe Borgotaro 10.9.1892 27.8.1941 B

Bozzia Francesco Borgotaro 25.8.1893 10.5.1925 (8.6.1933) B

Bozzia Giovanni Borgotaro 22.9.1890 18.1.1929 A

Briganti Celeste Borgotaro 20.5.1888 18.2.1937 B

Brindani Celeste Colorno 29.7.1881 22.7.1924 C

Brugnoli Giacomo Borgotaro 19.3.1902 28.2.1923 C

Brugnoli Giuseppe Borgotaro 6.3.1884 28.2.1923 C

Cacchioli Guglielmo Londra 13.4.1914 15.10.1940 B

Calzolari Colombo Terenzo 24.4.1877 4.3.1925 B

Cavalli Ernesto Borgotaro 26.5.18 11.6.1926 (9.10.1933) C

Delchiappo Bruno Lucerna 29.3.1900

Delgrosso Giovanni Borgotaro 10.6.1896 16.4.1935 B

Dellapina Daniele Borgotaro 15.9.1902 6.2.1939 B

Dellapina Domenico Borgotaro 27.10.1906 21.5.1939 B

Delnevo Giovanni Borgotaro 25.5.1886 19.3.1923 (8.12.1940) C

Frati Leovigildo Trecasali 28.5.1879 3.1.1927 C

Galluzzi Giovanni Borgotaro 12.3.1998 14.4.1925 (4.12.1929) C

Gandolfi Camillo Borgotaro 7.5.1904 3.8.1941 C

Gasparini Alberto Borgotaro 14.1.1994 26.5.1927 C

Gasparini Giuseppe Borgotaro 4.8.1908 11.9.1937 C

Gasparini Vincenzo Borgotaro 27.7.1883 14.11.1923 C

Ghirardi Giuseppe Borgotaro 8.1.1890 10.2.1938 C

Lanzarotti Primo Borgotaro 7.5.1891 14.10.1839\ B

Lazzarelli Luigi Mulazzo 29.11.1892 17.7.1926 A

Molinari Giuseppe Borgotaro 21.12.1892 21.9.1928 (25.9.1933) C

Parenti Giovanni Borgotaro 13.11.1890 18.11.1928 (17.3.1939) C

Scagliola Giuseppe Borgotaro 5.6.1885 28.2.1923 C

Zecca Vittorio Parigi 2.1.1900 25.4.1940 B

domenica 28 luglio 2013

Il bombardamento del 2 luglio

Foto bombardamento aereo su Borgotaro (Ponte della ferrovia)

Quelle che qui vedete sono foto davvero eccezionali.
Si riferiscono infatti ad un bombardamento aereo effettuato sull'importante e maestoso ponte ferroviario di Borgotaro, posto sulla linea Parma-La Spezia.
Il bombardamento avvenne (come si può leggere nella prima foto) il 2 luglio 1944. Nella seconda foto la data è errata. Anziché 2/7 c'è scritto 2/1. Il primo bombardamento su Borgotaro avvenne infatti il 17 maggio 1944, come riporta Mons. Boiardi nel suo Diario

17 maggio, mercoledì - Anche stamattina abbiamo avuto un allarme molto presto, verso le sette, ma non pensavamo che avvenisse ciò che è avvenuto. Alle 7,40 circa è avvenuta una incursione sopra al nostro paese, preceduta da una raffica di mitragliamento. Le bombe, circa una ventina, sono state sganciate sul ponte della ferrovia e sulla stazione. Qualcuna è caduta sui pressi della fabbrica del cemento e del tannino. Per vera e segnalata grazia del cielo non c'è stata nessuna vittima, nonostante che gli uffici della stazione fossero in attività e gli uomini fossero al loro posto di lavoro. Solo un milite e un carabiniere feriti leggermente.....

In realtà era un mito che crollava: cioè la convinzione che Borgotaro non sarebbe stata bombardata, non possedendo obiettivi militari. E non soltanto crollava un mito, ma un problema nuovo e grave si presentava: come ormai difendersi.

Il bombardamento del 2 luglio è avvenuto quando i partigiani da qualche giorno avevano occupato Borgotaro. Infatti vi fu una sola vittima: Cesare Bassani della famiglia Cavanna, il quale di guardia all'imbocco della galleria, non volle allontanarsi. Colpito al polpaccio da una grossa scheggia, morì dissanguato.

La prima foto riprende la prima scarica di bombe nel momento che stanno esplodendo.

La seconda è stata ripresa da un ricognitore. Dalle foto si può notare (specialmente se potete ingrandirle) i buchi provocati da precedenti bombardamenti. Osservate nel vicino Tarodine; a valle del ponte ferroviario e vicino allo sbocco del Vona nel Taro.

Osservate anche come i campi sono ben "sagomati" a seconda del prodotto che si coltivava. Notate che una bomba ha colpito il ponte, ma probabilmente lo ha forato senza produrre danno.

Ma la cosa più importante è che ho un amico (Michele di Reggio) che è in contatto con un'Associazione del 461° Gruppo di Bombardieri. Associazione che è in possesso di vari dati, tra i quali quelli relativi a missioni compiute su Borgotaro.

Ecco, ad esempio, la relazione fatta al comando dopo una incursione su Borgotaro. E' in inglese, tuttavia abbastanza comprensibile (almeno la prima parte). Ringrazierò chi, di lingua inglese, vorrà inviarmi la traduzione. Il brano riferito a Borgotaro è preso dalla relazione mensile che nomina anche incursioni eseguite in altre parti d'Italia.

"765TH BOMBARDMENT SQUADRON (H)
461st BOMBARDMENT GROUP (H)
wpe2.gif (221726 byte)Office of the Combat Intelligence Officer
WFF/jdk

APO 520, NY, NY
30 JUNE 1944

SUMMARY OF THE SQUADRON HISTORY FOR THE MONTH OF JUNE

June the 5th, on the day that Rome was entered by the ³Yanka², our crews
were briefed to hit Borgo Val di Taro, Italy. All 10 of the ships made it
over the target and back home. We didn¹t run into any flak; however, flak
was seen around Bologna, and no E/A intercepted our ships. The target that
the men were briefed for was missed, but the RR lines were blasted.



sabato 27 luglio 2013

LEGGENDE DELLA VAL DI TARO


 

Leggende di Val di Taro

Testi di Giacomo Bernardi
Illustrazioni di Mario Previ.
Borgotaro, 2006 - €10,00

In vendita presso le cartolibrerie di Borgotaro

1 - Miracolo a Natale
2 - La "Madôna dal buslan"
3 - La "furèsta".
4 - Il termine "dal gat"
5 - Le patate, il nobile e il contadino
6 - Il salto della bella donna
7 - Al sasu dal pe'  d'azi
8 - Il lago dei Monatti
9 - I fiumi gemelli
10 -La croce nera
11 -L'assedio
13 -La man ch' tegna sü al celu
15 -Al can d’ San Dum’n’gu
16 -Il canale di Miravescovo
 
***

La croce nera






I borghigiani sono sempre stati orgogliosi del loro ponte. Da sempre lo chiamano “d’ San Rocu”, per via della vicina omonima chiesa, anche se questa venne dopo il ponte che esisteva già nel quattrocento.

Ancora oggi, questa struttura, è tramite insostituibile tra i due tronconi del paese che il Taro ha voluto separare ed è quindi, oggi com’un tempo, un via vai di mezzi e pedoni.

Ben visibile, ma dal basso, è ancor oggi su una pila del ponte, una grande croce nera che una mano pietosa volle tracciare a ricordo di un fatto triste e doloroso accaduto nei primi anni dell’ottocento.

Rosa e Alessandro erano fidanzati da tempo, tanto che avevano deciso di sposarsi a settembre di quell’anno. Per questo lui, a primavera, era partito per la Maremma, dove era possibile guadagnare qualche soldo in più.

Mentre lui sudava in Maremma, a Borgotaro stava accadendo qualcosa di nuovo.

Rosa aveva conosciuto il rampollo di un signorotto del Borgo e tanto s’era di lui invaghita che aveva accettato di sposarlo.

Alessandro arrivò al Borgo proprio il giorno delle nozze. Seppe quanto stava accadendo e non ci volle credere: - Rosa sposa un altro? Impossibile. Voglio vedere!

E si portò sul ponte di San Rocco, dove Rosa sarebbe dovuta passare per recarsi in paese, poiché la chiesa di San Rocco, dopo il diluvio napoleonico, era stata ridotta a magazzino di legna e carbone.

Quando Rosa, con il codazzo di amici e parenti, fu a metà del ponte, Alessandro gli si fece incontro e la bloccò. – Rosa, cosa fai? Davvero sposi un altro? Non ci credo. Sono tornato con dei soldi. Fermati!

Lei non rispondeva.

Lui s’inginocchiò: -Ti supplico, sei tutto per me. Hai ancora al dito quell'anellino che ti ho regalato, segno che mi vuoi ancora bene. Forse lo fai soltanto perché lui è ricco…

Per tutta risposta Rosa si tolse l’anellino e, stizzita, lo lanciò nelle sottostanti acque del Taro. – Vallo a prendere il tuo anello!”.

Quel gesto rappresentava un ulteriore e grave sgarbo per Alessandro, che di colpo s’avvinghiò a Rosa, la trascinò fino al parapetto e con lei si lanciò nel vuoto gridando: - Verrai anche tu a cercarlo!”.

I due precipitarono nel sottostante lago e più non riemersero.

I loro corpi, rigidi e abbracciati, vennero trovati allo sbocco del Varacola. Li seppellirono insieme.

Qualche giorno dopo, una mano ignota tracciò una grande croce nera nella pila centrale del ponte, presso cui i due erano precipitati. Una croce ancor oggi ben visibile percorrendo la passeggiata lungo il Taro, costruita di recente.

***
 
 
L' ASSEDIO 

"Sicché vuolsi che fossero le anime purganti..."

La visione fu di una gran moltitudine di gente sulle mura…tutti
con torcie accese rimanendo così stupiti ed atterriti,
che non si sapeano dar pace come fosse tanta gente
in Paese, ne intenderne il mistero
Dal Diario di G. Francesco Varsi (1799)
Era l’ultimo anno di quel tormentato secolo XVIII e i borghigiani pensavano di essere in credito verso il destino che, negli ultimi anni, aveva riservato al Borgo tanti guai e carestie.
Invece…invece la valle, quell’anno, fu un andirivieni continuo di truppe.
Prima i Francesi cacciavano gli Austriaci, detti anche Imperiali, poi questi ricacciavano i primi. Tutti, però, quand’era il tempo di trovar da mangiare per uomini e cavalli, gravavano pesantemente sui valligiani.
Quel giorno, era il 26 maggio 1799, gli Imperiali, che occupavano da qualche tempo il Borgo, avevano deciso di attaccare e scacciare i Francesi che custodivano il passo di Centocroci.
Messisi in cammino, mentre stavano attraversando il greto del Gotra, vennero attaccati dai Francesi che nel frattempo si erano portati sulle alture di Campi, in posizione per loro assai favorevole ad ingaggiare battaglia.
Fu giocoforza per gl’Imperiali retrocedere prontamente e rifugiarsi al sicuro all’interno delle mura del Borgo che vennero accuratamente sbarrate.
I francesi si portarono nel luogo detto “Vantino” e cominciarono a far gran fuoco di archibugio; lo stesso fecero dal luogo detto “le Pezze”, ove oggi sorge l’Ospedale.
Gli Imperiali non erano da meno e rispondevano dal Borgo con ugual frequenza: la battaglia durò cinque ore, fino al calar della sera.
Col buio, verso le 10, gli Imperiali, dopo aver mandato avanti il loro bagaglio, uscirono dalla Porta Farnese, fuggendo verso Parma.
Mentre tutto questo accadeva, i borghigiani, chi in casa e chi nelle chiese, stavano a piangere e a pregare.
Recitavano l’Ufficio dei Morti, invocavano l’aiuto dei Santi e delle Anime dei Defunti affinché proteggessero il Borgo dal saccheggio.
I francesi, infatti, s’erano radunati in San Rocco, luogo in cui fecero vari consigli di guerra per stabilire se mettere a sacco il paese, che consideravano nemico perché era stata suonata, da parte del Colonnello Bramieri, la campana a martello.
Ma non si decidevano mai ad entrare, perché la maggioranza degli ufficiali era contraria, a causa di una visione che essi rivelarono successivamente alle autorità borghigiane.
Quella visione, che impediva loro di attaccare il paese, era di una moltitudine di gente che sulle mura andava avanti e indietro, come tante sentinelle e tutte con torce accese che illuminavano la notte.
Non potevano spiegarsi, i francesi, come potessero esserci tante persone nel Borgo, così non s’azzardarono ad entrare di notte. Lo fecero il mattino successivo, venendo a patti discreti con le autorità che erano loro andati incontro con la bandiera bianca. S’accontentarono, infatti, di una contribuzione di ottomila lire. Non era certo cosa da poco, ma il paese fu salvo.
Per i borghigiani non vi fu dubbio alcuno nel credere che quelle “sentinelle”, che avevano percorso avanti e indietro le mura con le loro torce accese, erano le Anime dei loro morti lungamente pregate e che erano scese, quella notte, a salvare il Borgo dal sacco notturno che avrebbe provocato nuovi lutti e nuove sofferenze.
Per il resto i danni non furono di poco conto, perché i soldati scelsero come loro Quartieri le chiese di San Domenico e San Rocco. In quest’ultima, “da alcuni scellerati Polacchi si mise il tutto a sacco con enorme dispreggio delle Sacre Immagini e dei sacri arredi” . Almeno questa è la testimonianza di Don Gian Francesco Varsi, che di quella terribile giornata fu attento testimone.

***

 

Le Cento Croci


   …                                            ...... dove si ritrovava un corpo morto si piantava una croce 
                                                     et tanto era il numero di croci che si diceva delle cento croci
                                           
e così venne a cambiare il suo primo nome di Lamba in Cento Croci.

 Antonio Cesena (1558)


La strada che passava sul monte Lamba e che univa Borgotaro a Varese Ligure era ritenuta una delle più pericolose, benché fosse di grande importanza, come quella che permetteva alle popolazioni gli scambi dei prodotti della marittima (olio, pesce, sale, tabacco, polvere da sparo, vino) con quelli della nostra montagna (castagne, farine, insaccati, funghi).

Le cronache antiche parlano del passo come di “loco horribile, selvaggio et oscuro” , dove molti vi morivano per mano d’assassini, ma anche perché “soffocati dalle gran nevi”, dai venti e da “freddi et horridi tempi”.

Così sul passo, e tutt’intorno, vi era una moltitudine di croci perché la pietà dei buoni garantiva ai cadaveri una fossa e una semplice croce. Fu così che la gente cominciò a chiamare Centocroci quel passo, fino alla totale scomparsa del vecchio nome che, come abbiano detto, era Lamba.

Troppo era importante questa via per non provvedere alla sua sicurezza, così quei di Varese e di Valtaro decisero di costruire sul passo un “hospitio” che avrebbe assicurato una maggior protezione ai viandanti, ai pellegrini e ai mercanti che vi passavano.

Lo intitolarono a San Michele e ne presero possesso dei bravi monaci che resero più sicuro il passaggio, soccorrendo gli sperduti per nebbie e nevi, curandone altri affaticati e stanchi, altri ancora, colpiti da mali o incidenti, venivano ospitati amorevolmente.

Così il luogo divenne famoso, “frequentato e visitato da molte persone con larghissime limosine” e riferimento sicuro per tanti viandanti.

Non si sa quando, né come, accadde che dei falsi frati prendessero un bel giorno il possesso dell’hospitio di San Michele e il loro capo, non si sa se frate o meno, che si faceva comunque chiamare Padre Monaco, mise in atto “una cosa rea e scelleratissima” per arricchirsi.

Così, avendo “il diavolo per consigliero”, fece di quel luogo fino ad allora testimone di bene, un luogo infame e di morte.

Questo “indiavolato huomo” fece scavare un pozzo profondo a mezzo miglio dall’hospitio, dopo di che, ogni volta che doveva soccorrere, curare od ospitare qualche viandante che gli pareva “huomo da denari”, con l’aiuto dei suoi, lo faceva svenare e poi, dopo averlo spogliato di tutto, faceva gettare i corpi “nell’horribil pozzo”.

Scrive il cronista che non “possendo il divino giudicio d’Iddio comportare una così horribil cosa”, permise che il grave fatto venisse alla fine scoperto.

Gli uomini del monte erano soliti tenere dei cani mastini per difendere i loro bestiami dalle fiere che un tempo infestavano i nostri monti. E per la verità in quei tempi i lupi erano talmente audaci e ingordi che spesso attaccavano gli uomini, “con tanto spavento di tutti che anco gli uomini arditi e valorosi non si attentavano andare né soli, né senza armi”.

I cani mastini, assai numerosi, partendo dai casolari sparsi intorno alle Centocroci, abbandonavano spesso i loro greggi e a schiere si portavano sulla bocca “del fetente pozzo”, e vi sostavano per ore “urlando a gara; né si sa se fussero ivi tratti dal giudicio di Dio, o dal fetore de putridi corpi” .

I pastori, vedendo i cani abbandonare le greggi, non sapevano spiegarsi come mai tradissero, inaspettatamente, la loro ben nota fedeltà dimostrata negli anni.

Così un giorno tre o quattro di loro decisero di seguire un gruppo di cani attraverso prati e boschi fino a giungere, dopo lungo cammino, sopra il pozzo ch’era attorniato da una schiera di cani ululanti. Visto quell’orribile spettacolo, attoniti e smarriti, non sapendo quale decisione prendere, pensarono bene di avvisare, prima di tutto, i monaci del vicino Hospitio.

Padre Monaco mostrò grande sorpresa e meraviglia. Si dichiarò disgustato; alzò al Cielo preghiere affinché il Signore facesse giustizia di tanto obbrobrio; chiamò in causa San Michele Arcangelo, lui che viene sempre rappresentato con la spada e che aveva fama di severo vendicatore.

Invitò i pastori a recarsi dalle competenti autorità che avrebbero provveduto a ricercare i colpevoli.

Noi”, aggiunse Padre Monaco, “non faremo mancare le nostre preghiere”.

I pastori tornarono in valle e nella notte gli assassini, dismessi i loro abiti da religiosi, se ne filarono via con tutta la refurtiva e i tesori accumulati, né più fu possibile trovare le loro tracce.

E così venne questo luoco tanto infame che niuno si ritrovò che volesse abitarlo

venerdì 26 luglio 2013

SU IN VALTARO-Testimonianze ed episodi della lotta partigiana.







SU IN VALTARO
Con questa pubblicazione, noi dell'Associazione Emmanueli, volevamo mettere in evidenza che anche nel corso di una guerra dura e tragica come quella di resistenza, ci furono episodi che misero in evidenza la parte "buona" delle persone, la loro umanità, quasi a dimostrare che la "pietà" non era del tutto morta.
La pubblicazione, uscita nel 1978, e da anni esaurita, conteneva sette episodi, quattro dei quali con la mia firma, accompagnati da disegni di Mario Previ

Tagliatelle... alla tedesca
Il terzo
Il mazzo di fiori
Un bagno...di sudore.

1 - Tagliatelle ...alla tedesca


I cinque partigiani scendevano allegri il pendio. La sera precedente il vecchio Molinari, che solitamente portava notizie dal Borgo, aveva affermato che giù in paese c'era calma e, a parte, rivolto al figlio Nello aveva detto: - Domani la mamma vuol preparare le tagliatelle di castagnaccio, vi aspettiamo. Puoi portare anche qualcun altro.

Così i cinque partigiani, armi in mano, stavano scendendo verso il Borgo.

In testa camminava Nello, lo seguivano i fratelli Zulù, Arabo, Gino e il cognato Veloce. Un'ora di cammino a piedi distava il paese, ma a vent'anni i passi sono svelti e la strada scema con rapidità.

Già si scorgeva la Madonnina e l'Ospedale e...dopo un poggio: ecco Borgotaro. Era sempre uno spettacolo vederlo dall'alto, ma Nello non lasciò agli altri il tempo di soffermarsi e da uomo pratico qual era disse: - E' bene che ci dividiamo, arriveremo a casa uno alla volta. Per primo entrerà Zulù, quindi Arabo, Gino e in fine Veloce: io seguirò per ultimo.

Zulù s'avviò subito distanziando gli altri. Scese per via Ronchi, attraversò Piazza Farnese e infilò Via Corridoni. Nella strada non c'era anima viva e in poco tempo fu all'altezza del portone n.60.

Entrò, salì velocemente i due gradini e aprì la porta di casa Molinari. La mano di Zulù rimase bloccata sulla maniglia. Tutto poteva aspettarsi meno che vedersi davanti due tedeschi seduti al tavolo.

La situazione era, a dir poco, imbarazzante. Zulù aveva il vantaggio di possedere un'arma, i tedeschi le avevano deposte a qualche metro di distanza.

Ruppe il silenzio l'involontario responsabile di ciò che stava accadendo: Bergamo. Era costui parente della famiglia Molinari, un tipo strano, orfano in giovane età, allevato dai Molinari. Aveva, in seguito, girato alcuni paesi europei; conosceva diverse lingue, compreso il tedesco, e aveva per questo familiarizzato, durante quel periodo, con i tedeschi che presidiavano la stazione ferroviaria di Borgotaro. Proprio quella sera, dopo aver incontrato i due militari, aveva loro detto: - Facciamo un salto da mia zia a mangiare qualcosa, poi usciamo.

Ora, seduto al tavolo, stava invitando Zulù ad entrare.

S'era appena accomodato, senza abbandonare l'arma, Zulù, quando s'udì di nuovo aprire la porta: era Arabo. Si ripeté la scena precedente, con il solo mutamento che Arabo, pur sorpreso, notò Zulù seduto accanto ai tedeschi e anch'egli si accostò al tavolo.

Mamma Molinari, superato lo spavento, abbandonò un attimo il fornello e chiese al nuovo arrivato: - Non viene Nello? -Sì- rispose Arabo - sarà qui da un momento all'altro. E rivolto a Bergamo: - Dì a quei due che arriveranno altre persone.

Nel volger di pochi minuti, infatti, arrivarono anche gli altri.

Mamma Molinari scodellò le tagliatelle. Servì per primi i tedeschi, i quali si guardarono bene dall'iniziare a mangiare. - Sono educati, i miei figli di solito, appena hanno il piatto pronto, non aspettano davvero gli altri -, pensò. Ma, riempiti tutti i piatti, le forchette dei tedeschi rimasero inerti sul tavolo.

Nello capì: avevano paura. Prese una forchetta, l'infilò nel piatto di un tedesco, ne trasse delle tagliatelle e le ingoiò con rapidità. Una risata generale sciolse il ghiaccio e tosto tutti, tedeschi compresi, si diedero di buona lena a trangugiare l'appetitoso piatto.

Sul tavolo stava un fiasco di quel vino da noi detto "vinello" o "vinetta". Disse Nello al padre, che ancora non aveva parlato: - Vai a prendere un fiasco di quelli buoni che ci risolleviamo un poco.

Papà Molinari s'alzò, contento forse di potersi muovere un poco e tornò con il fiasco. Versò da bere ai due tedeschi e disse: - Vino buono! Bere! - e si fermò alle loro spalle con il fiasco in mano, già pregustando i commenti. I tedeschi fecero finta di non capire e Bergamo dovette ripetere l'invito nella loro lingua.

I due si guardarono l'un l'altro, distolsero lo sguardo, quindi posarono gli occhi sui commensali. Ancora un gelido silenzio scese sulla strana tavolata. Cosa mai potevano aspettarsi quei due da una famiglia che dopo averli invitati, faceva trovare al tavolo cinque partigiani armati? Qual era il significato di tutto ciò?

Papà Molinari stava ancora alle spalle dei tedeschi con il fiasco in mano.

- Pà - disse Nello in dialetto, - vèrsa chi!. Appena n'ebbe di quel vino vuotò d'un fiato il bicchiere. Allora i due tedeschi lo imitarono e tra un sacco di "Jahvol" ripresero con gli altri a mangiare le tagliatelle.

La cena proseguì senza altri inconvenienti. S'accese una discussione e a Bergamo, quasi come pena per la sua leggerezza, toccò di riportare or all'uno ora all'altro, nelle rispettive lingue, i discorsi che s'infittivano man mano che il livello di un secondo fiasco andava scemando.

Solamente vi fu un poco di tensione allorché uno dei due tedeschi, dopo aver mandato a quel paese il Fhürer, prese la sua arma e fece l'atto di spezzarla sul ginocchio. Intervennero i Molinari pregandolo di desistere da un atto che avrebbe potuto provocare gravi conseguenze.

Alla fine i tedeschi s'alzarono, raccattarono le loro armi e dissero: - Domani noi portare zucchero e olio per ringraziare. Si salutarono ed ognuno andò per la sua strada, dalla parte che il destino, a volte bizzarro, aveva loro assegnato, forse da tempo. Domani sarebbero stati nemici, le armi e non le tagliatelle avrebbero prevalso.

Il giorno seguente i due tedeschi non si fecero vivi. Due giorni dopo Bergamo fece il solito giro alla stazione. Parlò con qualche tedesco e seppe che i due amici di quella serata non si trovavano più a Borgotaro....

P.S. Nello Molinari è Nello dal Zainu, gli altri i fratelli e il cognato Aldo Feci

Da: Giacomo Bernardi, Su in Valtaro, Ass. Emmanueli, 1978. Disegni di Mario Previ

2 - Il ...terzo



I corpi vennero prelevati dalle scale che erano servite da barella e adagiati ai piedi del muro di cinta del cimitero di Baselica.
Era sera, non c'era più tempo per una sistemazione definitiva; quelli della frazione avrebbero provveduto, in seguito, come altre volte, alle casse, alla funzione religiosa e al seppellimento.
Le salme erano due: un partigiano e un tedesco.

Dal gruppo di partigiani, una ventina circa, si levò una voce che dopo aver pronunciato quattro nomi, disse: - Vi fermerete voi quattro. Due veglieranno i morti e due staranno di pattuglia per tutta la notte. Domattina rientrerete. Fate attenzione, al comando si pensa che dopo i fatti di oggi possa esserci una puntata dei tedeschi. Ci vedremo domattina.
Sarà stata la colpa dell'oscurità, della stanchezza, o d'altro, ma quando il gruppetto di partigiani si fu allontanato, i rimasti s'accorsero d'essere in tre anziché in quattro.
- Fa lo stesso,- disse Scambio - ci arrangeremo in tre. Due di pattuglia e uno qui con i morti.
- Io non me la sento di restare solo vicino al cimitero - interloquì un partigiano - Preferisco andare di pattuglia.
- Se non avete niente in contrario - tagliò corto Scambio - mi fermerò io.
L'accordo fu raggiunto. Le due salme vennero accuratamente coperte con dei panni militari. Scambio dispiegò una terza coperta, se l'avvolse a foggia di tabarro e si sedette appoggiando le spalle al muro del cimitero.
Gli altri due lanciarono un breve saluto e sparirono nel bosco di castagni.
La notte non era fredda, si era alle soglie dell'estate, anche se dai vicini boschi giungeva un'aria frizzante che aiutava Scambio a restare sveglio.
Intorno il silenzio più assoluto, solo qualche grido d'uccello notturno e più tardi uno scricchiolare di foglie, forse provocato dall'andare di un riccio.
Due volte Scambio maneggiò per arrotolare una sigaretta, osservò il lento procedere delle stelle, poi la stanchezza ebbe il sopravvento: si allungò sull'erba, si coprì completamente con la coperta e s'addormentò.
A vent'anni, tanti ne contava Scambio, il sonno è di solito profondo. Quanto tempo abbia dormito non lo si può dire.
Si risvegliò disturbato da alcune voci. Il torpore del dormiveglia, quando ancora non si distingue tra sogno e realtà, non gli permise di alzarsi subito.
Gli giunse però distinta una voce che diceva: - Ma reverendo dovevano essere due i morti, invece sono tre.

A questo punto fu chiaro a Scambio che si trattava dei frazionisti incaricati di provvedere alle due salme.
Sollevò quindi la coperta che l'avvolgeva interamente e...fece appena in tempo a vedere, all'incerto chiarore dell'alba, due uomini e un prete che se la davano a gambe giù per la stradicciola, spaventati dall'improvviso agitarsi del terzo...cadavere.
Scambio si alzò, s'inoltrò nel bosco in cerca dei due amici di pattuglia. Lanciò qualche richiamo, finché ottenne risposta.
Poco dopo i tre s'incontarono. Scambio raccontò l'accaduto.
- Si sta facendo giorno, - disse uno dei tre - dobbiamo rientrare, più tardi quelli della frazione torneranno.
La proposta fu accolta e i tre s'incamminarono.

Testimonianza resami da Severino Costa(Scambio)

Da: Giacomo Bernardi, Su in Valtaro, Ass. Emmanueli, 1978. Disegni di Mario Previ

 



3 - Il mazzo di fiori





Vorrei essere un fiore
e tu venissi piano,
a cogliermi, e spiccarmi
e mi tenessi in mano.




Nel giugno del 1944, le formazioni partigiane della Valtaro avevano portato a compimento il loro piano ambizioso: la liberazione dell'intera valle.

Nel maggio precedente c'era stato, nella zona, un vasto rastrellamento da parte dei tedeschi, ma le forze partigiane si erano sottratte, come d'incanto, al nemico subendo poche perdite, per riformarsi subito dopo decise più che mai a riprendere la lotta.
Anzi si può dire che l'azione dei tedeschi avesse rafforzato l'idea della Resistenza, tanto che, nel mese successivo, nuovi giovani si erano arruolati nelle formazioni partigiane contribuendo a renderle più forti.
Già sul finire del maggio, appena passata l'orda tedesca, le formazioni erano passate al contrattacco.
Il 29 maggio venivano infatti disarmati i presidi militari tedeschi posti nei caselli ferroviari n.61 e 62 sulla linea Parma-La Spezia.
Il 5 giugno veniva attaccato e disarmato il presidio fascista della stazione ferroviaria di Borgotaro.
Alcuni giorni dopo era la volta dei presidi situati al passo del Bocco e alle Pezze di Borgotaro.
Il 10 giugno, nei pressi del ponte sull'Occhiello(tra Pontolo e Baselica) veniva assalita una corriera di militi fascisti.
Veniva nel frattempo occupata la stazione ferroviaria di Ostia, sabotato il ponte "parabolico" e danneggiato un lungo tratto di binario sotto la galleria del Borgallone, tra Ostia e Borgotaro.
Il giorno 14 veniva liberata Bedonia e il giorno successivo Borgotaro.

15 giugno 1944: Borgotaro è nelle mani delle formazioni partigiane. Alcuni distaccamenti rimangono sui passi a presidiare la valle interamente liberata, ma a Borgotaro c'è notevole confusione.
Presso l'albergo Appennino sono riuniti i capi. Fuori sostano i partigiani ancora increduli per quanto hanno saputo osare: è il primo giorno di relativa calma, che segue ad una settimana di scontri violenti. Amici che da tempo non si vedono, si salutano e si scambiano notizie, impressioni...aria di festa, insomma.
All'improvviso, proveniente da chissà dove, un'auto militare s'accosta all'albergo. Sono tedeschi! Non fanno nemmeno in tempo ad estrarre le armi che dieci, venti mani li bloccano e li portano all'interno dell'albergo. L'automezzo viene nascosto.
Tra la notevole, comprensibile confusione, qualcuno si organizza: se un automezzo ha forzato il blocco, altri ne potrebbero giungere.
Gruppi di partigiani, armi in pugno, risalgono via Piave.
Un gruppo con mitraglia s'apposta presso l'edificio scolastico, altri nel giardino della casa di fronte.
Ed ecco spuntare, su dalla curva in fondo a via Piave, un secondo automezzo tedesco. Giunto all'altezza del palazzo delle scuole viene crivellato da raffiche di colpi. L'automezzo procede ondeggiando fino a giungere comunque davanti all'albergo Appennino.
Anche qui un fitto crepitio di armi automatiche: chi spara dal giardino, chi dall'albergo, chi dal viale.
L'auto tedesca, nonostante tutto, procede e finisce la sua corsa all'inizio del ponte di San Rocco.
Terminata la confusione ci s'accorge che un partigiano è rimasto a terra presso un platano. Morto!
E' Remo Dallara(Esonero), anni 19: il primo caduto del Libero Territorio del Taro.
A sera parte un camion con sopra le salme di Remo e di un tedesco. Percorre la strada Borgotaro-Berceto e giunto all'altezza di Baselica, si ferma.
Alcuni partigiani depongono le salme sopra due scale e cominciano una lenta e triste marcia verso il cimitero di Baselica.

16(o 17) giugno: nella chiesa di Baselica si stanno svolgendo le esequie.
In chiesa giacciono le due salme: Don Alessio Tozzi ha appena terminato l'omelia, quand'ecco una donna precipitarsi all'interno e gridare: - Stanno arrivando i tedeschi!
Farsi trovare con un partigiano, sia pure morto, era cosa assi pericolosa a quei tempi; la presenza, poi, di un tedesco ucciso dai partigiani complicava maledettamente le cose.
Già il caratteristico ticchettio degli stivaletti preannunciava imminente l'apparire dei tedeschi...
In chiesa calava il più assoluto silenzio...s'apre la porta e nello stesso momento un mazzo di fiori, l'unico, vola dalla salma di Esonero e va a posarsi, in qualche modo, sulla salma del tedesco.
Un ufficiale tedesco avanza deciso verso l'altare: si ferma presso la salma di Esonero, guarda quindi la salma del connazionale con quel mazzo di fiori mal collocato, ma che dimostra pur sempre la profonda umanità delle persone lì presenti.
L'ufficiale si guarda in giro...scruta quella gente, solo il pianto di mamma Dallara rompe il silenzio. A lei in quel momento non interessa altro che Remo, il figlio non ancora ventenne che giace lì davanti. Forse non aspetta altro che andare con lui...
L'ufficiale tedesco è ancora lì, immobile davanti alle salme, è ancora indeciso...in fondo alla chiesa, armi in pugno, sta una decina di tedeschi in attesa di un cenno.
All'improvviso l'ufficiale si china, toglie dalla salma del tedesco la piastrina di riconoscimento, l'intasca, quindi retrocede di due passi e saluta militarmente con un energico battito degli stivali.
Compie un rapido dietro-front, ripercorre deciso l'intera navata ed esce seguito dagli altri tedeschi.
Don Alessio Tozzi riprendeva le esequie...

Testimonianza resami dalla famiglia Dallara.

Giacomo Bernardi, Su in Valtaro, Ass. Emmanueli, 1978. Disegni di Mario Previ


4 - Un bagno... di sudore


Nell'estate del '44, il distaccamento Dallara della 1a Brigata Julia si trovava dislocato in località Agnidano nei pressi di Baselica.
Si componeva di circa cinquanta partigiani sotto il comando di Gomel.
I collegamenti con il comando di Brigata, situato sull'opposto versante della valle, nei pressi di Caffaraccia, venivano assicurati con l'ausilio di staffette le quali, spesso, dovevano attraversrare zone "calde" con possibilità di incontri poco piacevoli.
Un giorno di quell'estate, presso il comando di Brigata, si trovava il partigiano Formentino ch'era lì giunto con un messaggio inviato da Gomel, Comandante del distaccamento.
Attendeva la risposta da parte del Comandante Dragotte per poi ripartire. Verso sera venne chiamato e il comandante gli disse: "Ecco la risposta. Per questa notte però ti fermerai, già ho dato l'ordine di provvedere: partirai domattina".
Formentino fu contento delle disposizioni del Capo: poteva così trascorrere una serata con gli amici che da tempo non vedeva. C'erano fatti da raccontare, qualche coro e molte risate...
Più tardi, quando si coricò, mentalmente ripassò la strada che avrebbe percorso il mattino seguente. Si trattava di andare ad Agnidano; bisognava scendere in fondo valle, attraversare la linea ferroviaria Parma-La Spezia, guadare il Taro e risalire quindi l'opposto versante ove correva la rotabile Borgotaro-Berceto. Due orette di strada, in tempi normali, ma la parte mediana del percorso, quella in corrispondenza del fiume, andava affrontata con grande cautela. Lungo la linea ferroviaria e la strada Borgotaro-Berceto che correvano parallele e vicine al Taro, sia pure su sponde opposte, era facile imbattersi in pattuglie nemiche e poi c'era il Taro da guadare...un tratto completamente scoperto, facilemente controllabile....

*

Verso le sette del mattino Formentino si mise in marcia. La giornata si prospettava bella: dal Molinatico baluginava però un sole che lasciava prevedere caldo e afa.
Per ripidi pendii, or tra boschi or per radure, scese Formentino e si trovò presto su un poggio dal quale poteva osservare la sottostante ferrovia.
Ora doveva discostarsi leggermente dalla direzione di marcia, allungando, sia pur di poco, il percorso perché presso l'entrata della sottostante galleria vi era il casello ferroviario n.60 presidiato notte e giorno da una decina di tedeschi. Costoro si erano sempre limitati alla sorveglianza della ferrovia e mai si erano spinti all'interno della zona partigiana. Per non farsi sorprendere da possibili imboscate notturne, i tedeschi avevano perimetrato una zona attorno al casello con un filo di ferro, al quale avevano appeso barattoli, bottiglie, lamiere e altri aggeggi capaci di produrre rumori al minimo contatto, in modo da richiamare la loro attenzione.
Formentino deviò, quindi, per qualche centinaio di metri dalla naturale direzione di marcia, attraversò la ferrovia e rapidamente si precipitò verso il Taro, il cui greto era poco lontano.
Ora si sentiva più sicuro tra i fitti cespugli di salici che lì nascono spontanei, numerosi e alti. Avanzava con fatica, ma si sentiva tranquillo; lo "stein" gli serviva per farsi strada in quel groviglio di rami.
Sentiva ormai lo scorrere delle acque del Taro quando, all'improvviso, oltrepassato un ennesimo e aggrovigliato cespuglione, si trovò allo scoperto...con un tedesco di fronte che gli stava puntando l'arma.
Alle spalle di quello, quattro o cinque tedeschi, completamente nudi, stavano bagnandosi nel fiume.
Erano quelli del casello ferroviario!
I due si fissarono a lungo negli occhi. Entrambi avevano l'arma puntata.
In acqua i tedeschi si erano irrigiditi in attesa di una decisione ch'era nelle mani di quei due che si fronteggiavano.
"Non so dove presi il coraggio, - mi dirà Formentino - ma avevo capito che solo la calma poteva darmi ua possibilità di salvezza".
Dall'acqua giunse una frase, forse un ordine.
Il tedesco voltò le spalle al partigiano e depositò l'arma a terra.
Formentino guadagnò rapidamente la riva del fiume, giuntovi osservò che la situazione non era cambiata: i tedeschi in acqua erano sempre immobili, l'altro sempre fermo con l'arma a terra. Volle strafare: con l'arma sotto un braccio tenne a bada i tedeschi e con la mano libera cominciò a togliersi gli scarponi. Quindi lentamente guadò il fiume.
Al di là l'attendeva un tratto di erta abbastanza ripido con alberi e cespugli.
Giunto a riva fu però preso dal panico, corse velocemente per una decina di metri e si gettò a terra.
Tornò quindi a riguardare verso il fiume.
S'accorse, non senza un sospiro di sollievo, che la paura non stava solamente da una parte...vide infatti che i tedeschi, vestiti sottobraccio, stavano abbandonando velocemente il fiume e risalivano verso il casello ferroviario.
Formentino s'infilò gli scarponi, s'attardò un poco per recuperare fiato, calma e coraggio, e riprese a salire.
Giunse ai piedi della scarpata della rotabile Borgotaro-Berceto. Si trattava dell'ultimo ostacolo; al di là si sarebbe sentito tranquillo.
S'acquattò in attento ascolto prima di compiere l'ultimo balzo. Gli parve d'udire un lontano rumore, forse era solo la paura cagionata dalla tensione precedente.
Rimase comunque fermo. Dopo alcuni minuti gli giunse chiaro e inequivocabile il rombo d'un motore...passò un automezzo...poco dopo un altro e poi un terzo ancora.
Formentino non si permise di alzare la testa, ma ormai era sicuro: si trattava di una colonna. Un automezzo si fermò. Udì delle voci. Non erano vicinissime, forse un centinaio di metri, forse meno, sì da giungere comunque al suo orecchio: erano tedeschi.
Si spostò piano piano e s'addentrò tra ortiche e cespugli di rosa canina che ricoprivano un tombino stradale. La faccia, le mani non ne potevano più, ma il pericolo era troppo grande.
Dalla strada si poteva vedere il casello ferroviario ed sarebbe quindi stato possibile uno scambio di notizie tra i due gruppi. Avrebbe potuto trovarsi bloccato su due fronti...
Ciò non avvenne e s'udì finalmente l'avvio di un motore.
Formentino uscì allo scoperto, attraversò la strada e s'incamminò verso la montagna.
Il viso recava i segni delle ortiche, gli spini non si contavano; ma in alto si vedeva ormai il campanile di Baselica e da là giungevano lenti i rintocchi del mezzogiorno.
Si fermò all'ombra di un albero, tolse gli spini più superficiali e ripartì. Era in ritardo, ma all'ora di pranzo avrebbe avuto qualcosa da raccontare.

(Testimonianza resami da Ercole Bazzani - Formentino)
Da: Giacomo Bernardi, Su in Valtaro, Ass. Emmanueli, 1978. Disegni di Mario Previ