Erano davvero amici per la pelle Pepino d’la Strolga e Gino d’la Burota. Avevano da poco terminato
d’ fa ar suldà per tornare al
lavoro solito dal paizan: quello dei
loro padri, dei nonni, di veci, da anni annorum.
Giornate fatte di levate mattutine che non sapevi s’ l’era dì o not’; aratro, vanga e zappa a
spacà la schèina; taglio di boschi,
sfalcio di prati, e poi le vacche: mungerle, portarle a bere, pulirle anca int’ cul postu.
Ogni giorno, sempre così, con lavori che si ripetevano
uguali, monotoni ogni anno, a seconda delle stagioni e delle lune. Ma la fatica,
quella non cambiava mai.
Verso Natale, quando i grandi lavori erano ormai terminati:
raccolte e seccate le castagne, finita la cutüra, misu
via al fèin, fatu la ligna, gli impegni diminuivano e la fatica si
faceva sentire meno.
Così il sabato sera, meno stanchi del solito, andavano a
ballare a l’ustaria dal M’ndicu, giù
a Buzzò.
Le loro case, a tiro di voce l’una dall’altra, erano le più
vicine al monte, ma le più lontane e scomode per chiunque. Il posto si chiamava
Cipalo, ma la gente diceva Sipalu e
nessuno mai era riuscito a dare spiegazione a quello strano nome.
Quell’anno, l’inverno s’era fatto sentire presto ma, a dire
il vero, a quei tempi le stagioni erano puntuali e rispettavano tempi e
proverbi.
Pr’i Santi la nèiva int’i campi
P’r San Martèin la nèiva int’i camèin.
Così la neve s’era già fatta vedere benché si fosse ai primi
di dicembre.
Quella sera Pepino d’la
Strolga e Gino d’la
Burota s’erano dati appuntamento versu ot’ur giù allo stradone per andare a
ballare.
Erano passati poi a Roncola per chiamare Tonino d’la Pansota e la Mariöla. Avevano trovato il primo, non la
seconda che aveva preferito scendere al Casello di Gotra con un’atra cumpania.
A Pepino la
faccenda non era piaciuta. Era un tipo che perdeva facilmente la calma. Bon cum’al pan, ma guai fargli un torto.
I tre stavano risalendo il sentiero che attraversava il bosco
d’ Balèin per raggiungere Buzzò.
Fu Pepino a
rompere il silenzio: “Sèinsa dona cum s’ fa?” diceva, sapendo come fosse
difficile far ballare le donne del Buzzò.
Gli altri non rispondevano: meglio lasciarlo sfogare.
“Quando saremo al Crocione, piruma cun niètri la Madona
e la porteremo a ballare” disse poco dopo.
Gli amici non l’avevano mai visto così arrabbiato e pur non
apprezzando la sortita preferirono, p’r via dal p’r via, tacere.
Arrivarono al Cruzon ch’era buio. Era un posto che metteva
paura: quasi sempre la gente vi passava di corsa se non era pieno giorno.
Ecco il cimitero con quel cancello che cigolava al vento,
davanti la grande croce a ricordo di una famosa Missione e poco più in là il
Santuario della Madonna con la statua.
I tre si fecero un rapido segno di croce.
“Allora Madonna vuoi venire con noi a ballare? Avuma pèrsu la Mariola, truvuma Maria”. Così
sparlava Pepino e sghignazzava.
Forse l’aveva preso il demonio, pensava Gino
d’la Burota, che si limitò a dirgli: “Lasa pèrd’.
Ora la strada aveva ripreso a scendere e, oltrepassata la
fontana, sentirono il suono della fisarmonica: Mariu d’l’Anna stava
eseguendo un valzer.
Entrarono: c’era molta confusione. Presero posto a un tavolo
e ordinarono una meza d’rusu. Alcune coppie stavano piroettando al ritmo
del valzer.
Terminato il pezzo, tutti si erano ritirati ai tavoli o alle
panche. In quel momento si sentì battere alla porta.
Paolino d’la Bügandera, ch'era vicino all'ingresso,
s’alzò e aprì. Gli si presentò una bella ragazza: alta e bionda: “una
furèsta”, pensò.
La ragazza non entrò e chiese di Pepino d’la
Strolga.
Paolino la invitò ad entrare, perché sì, Pepino
c’era.
Lei rifiutò l’offerta: - Per favore, fallo uscire un
momento”.
Pepino fu avvisato e subito uscì, richiudendo la
porta.
Paolino cominciò a raccontare la cosa: “Ch’ fiola, ragasi, mai vista una così
bella!”
E tutti a strolicare come e dove Pepino avesse potuto
conoscere una donna del genere…
E poiché non rientrava, vennero avanzate le ipotesi più
ghiotte…
“Laslu fa lü”,
sentenziò ar M’ndicu, che in quel momento d'euforia aveva visto
aumentare le richieste di vino.
Gino d’la Burota
rincasò alle due e subito s’infilò a letto, l’indomani si sarebbe alzato più
tardi del solito. La mamma, come di consueto in quelle occasioni, lo avrebbe
sostituito nel lavoro della stalla.
Alle sei, mentre Anna d’la
Burota si trovava sull’aia di buon’ora, vide arrivare la Strolga.
Non era una cosa usuale: “Cuz’ gh’è mai?”, pensò.
“Non sono ancora tornati i
fio?”
La Burota
stralunò gli occhi. Rientrò di corsa, salì la scala di legno e sentì,
orecchiando alla porta, il respiro di Gino.
Ritornò sull’aia :”Al me
Gino u gh’è e al to fiö?”
“Pepino non è
tornato, al letu l'è ancura belu
fatu!
La Burota
rientrò, risalì la scala e aprì la porta.
Gino brontolò:
“T’è zamò chi!
“La Strolga dice
che Pepino non è ancora tornato. Al letu
l’è ancura bèlu fatu”.
“Beatu lü, ieri
sera è venuta una dona furèsta a
cercarlo e lui se ne è andato con lei. Dove non lo so, ma credo che si sarà
divertito pü d’ mi cun cul’ sgrozl’ dal
Büzò”.
La Burota
ridiscese sull’aia e rassicurò la Strolga che sentenziò: “E varda cul Pepino, chi l’avré ditu?” e se ne
andò senza aggiungere altro perché anca le
l’era vüna umbruza cum’al fiö.
Quel giorno Pepino non tornò e gnanca al dì dopu. Lo attesero invano giorni,
mesi e anni. Qualcuno cominciò a dire che se n’era andato in città con cula bèla furèsta; Gino, da parte
sua, non volle mai più parlare di quella sera e quando gli capitava di
passare al Cruzon, vicino al Cimitero e al Santuario, si faceva ripetuti segni
di croce: la Madonna della statua era bella, alta e bionda…cum’ la
dona furèsta, tal’ e qual’".
Da: Giacomo Bernardi, Leggende della Val di Taro, 2006. Illustrazioni di Mario Previ.
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