Leggende di Val di Taro
Testi di Giacomo BernardiIllustrazioni di Mario Previ.
Borgotaro, 2006 - €10,00
In vendita presso le cartolibrerie di Borgotaro
1 - Miracolo a Natale
2 - La "Madôna dal buslan"
3 - La "furèsta".
4 - Il termine "dal gat"
5 - Le patate, il nobile e il contadino
6 - Il salto della bella donna
7 - Al sasu dal pe' d'azi
8 - Il lago dei Monatti
9 - I fiumi gemelli
10 -La croce nera
11 -L'assedio
13 -La man ch' tegna sü al celu
14 -Le Cento Croci
15 -Al can d’ San Dum’n’gu16 -Il canale di Miravescovo
***
La croce nera
I borghigiani sono sempre stati orgogliosi del loro ponte. Da
sempre lo chiamano “d’ San Rocu”, per via della vicina omonima chiesa, anche se
questa venne dopo il ponte che esisteva già nel quattrocento.
Ancora oggi, questa struttura, è tramite insostituibile tra i
due tronconi del paese che il Taro ha voluto separare ed è quindi, oggi com’un
tempo, un via vai di mezzi e pedoni.
Ben visibile, ma dal basso, è ancor oggi su una pila del ponte,
una grande croce nera che una mano pietosa volle tracciare a ricordo di un fatto
triste e doloroso accaduto nei primi anni dell’ottocento.
Rosa e Alessandro erano fidanzati da tempo, tanto che avevano
deciso di sposarsi a settembre di quell’anno. Per questo lui, a primavera, era
partito per la Maremma, dove era possibile guadagnare qualche soldo in più.
Mentre lui sudava in Maremma, a Borgotaro stava accadendo
qualcosa di nuovo.
Rosa aveva conosciuto il rampollo di un signorotto del Borgo e
tanto s’era di lui invaghita che aveva accettato di sposarlo.
Alessandro arrivò al Borgo proprio il giorno delle nozze. Seppe
quanto stava accadendo e non ci volle credere: - Rosa sposa un altro?
Impossibile. Voglio vedere!
E si portò sul ponte di San Rocco, dove Rosa sarebbe dovuta
passare per recarsi in paese, poiché la chiesa di San Rocco, dopo il diluvio
napoleonico, era stata ridotta a magazzino di legna e carbone.
Quando Rosa, con il codazzo di amici e parenti, fu a metà del
ponte, Alessandro gli si fece incontro e la bloccò. – Rosa, cosa fai? Davvero
sposi un altro? Non ci credo. Sono tornato con dei soldi. Fermati!
Lei non rispondeva.
Lui s’inginocchiò: -Ti supplico, sei tutto per me. Hai
ancora al dito quell'anellino che ti ho regalato, segno che mi vuoi ancora bene.
Forse lo fai soltanto perché lui è ricco…
Per tutta risposta Rosa si tolse l’anellino e, stizzita, lo
lanciò nelle sottostanti acque del Taro. – Vallo a prendere il tuo anello!”.
Quel gesto rappresentava un ulteriore e grave sgarbo per
Alessandro, che di colpo s’avvinghiò a Rosa, la trascinò fino al parapetto e con
lei si lanciò nel vuoto gridando: - Verrai anche tu a cercarlo!”.
I due precipitarono nel sottostante lago e più non
riemersero.
I loro corpi, rigidi e abbracciati, vennero trovati allo sbocco
del Varacola. Li seppellirono insieme.
Qualche giorno dopo, una mano ignota tracciò una grande croce
nera nella pila centrale del ponte, presso cui i due erano precipitati. Una
croce ancor oggi ben visibile percorrendo la passeggiata lungo il Taro,
costruita di recente.
***
L' ASSEDIO
"Sicché vuolsi che fossero le anime purganti..."
La visione fu di una gran moltitudine di gente sulle mura…tutti
con torcie accese rimanendo così stupiti ed atterriti,
che non si sapeano dar pace come fosse tanta gente
in Paese, ne intenderne il mistero
con torcie accese rimanendo così stupiti ed atterriti,
che non si sapeano dar pace come fosse tanta gente
in Paese, ne intenderne il mistero
Dal Diario di G. Francesco Varsi
(1799)
Era l’ultimo anno di quel tormentato secolo XVIII e i
borghigiani pensavano di essere in credito verso il destino che, negli ultimi
anni, aveva riservato al Borgo tanti guai e carestie.
Invece…invece la valle,
quell’anno, fu un andirivieni continuo di truppe.
Prima i Francesi cacciavano gli Austriaci, detti anche
Imperiali, poi questi ricacciavano i primi. Tutti, però, quand’era il tempo di
trovar da mangiare per uomini e cavalli, gravavano pesantemente sui
valligiani.
Quel giorno, era il 26 maggio 1799, gli Imperiali, che
occupavano da qualche tempo il Borgo, avevano deciso di attaccare e scacciare i
Francesi che custodivano il passo di Centocroci.
Messisi in cammino, mentre stavano attraversando il greto del
Gotra, vennero attaccati dai Francesi che nel frattempo si erano portati sulle
alture di Campi, in posizione per loro assai favorevole ad ingaggiare
battaglia.
Fu giocoforza per gl’Imperiali retrocedere prontamente e
rifugiarsi al sicuro all’interno delle mura del Borgo che vennero accuratamente
sbarrate.
I francesi si portarono nel luogo detto “Vantino” e
cominciarono a far gran fuoco di archibugio; lo stesso fecero dal luogo detto
“le Pezze”, ove oggi sorge l’Ospedale.
Gli Imperiali non erano da meno e rispondevano dal Borgo con
ugual frequenza: la battaglia durò cinque ore, fino al calar della sera.
Col buio, verso le 10, gli Imperiali, dopo aver mandato avanti
il loro bagaglio, uscirono dalla Porta Farnese, fuggendo verso Parma.
Mentre tutto questo accadeva, i borghigiani, chi in casa e chi
nelle chiese, stavano a piangere e a pregare.
Recitavano l’Ufficio dei Morti, invocavano l’aiuto dei Santi e
delle Anime dei Defunti affinché proteggessero il Borgo dal saccheggio.
I francesi, infatti, s’erano radunati in San Rocco, luogo in cui
fecero vari consigli di guerra per stabilire se mettere a sacco il paese, che
consideravano nemico perché era stata suonata, da parte del Colonnello Bramieri,
la campana a martello.
Ma non si decidevano mai ad entrare, perché la maggioranza degli
ufficiali era contraria, a causa di una visione che essi rivelarono
successivamente alle autorità borghigiane.
Quella visione, che impediva loro di attaccare il paese, era di
una moltitudine di gente che sulle mura
andava avanti e indietro, come tante sentinelle e tutte con torce accese
che illuminavano la notte.
Non potevano spiegarsi, i francesi, come potessero esserci tante
persone nel Borgo, così non s’azzardarono ad entrare di notte. Lo fecero il
mattino successivo, venendo a patti discreti con le autorità che erano loro
andati incontro con la bandiera bianca. S’accontentarono, infatti, di una
contribuzione di ottomila lire. Non era certo cosa da poco, ma il paese fu
salvo.
Per i borghigiani non vi fu dubbio alcuno nel credere che quelle
“sentinelle”, che avevano percorso avanti e indietro le mura con le loro torce
accese, erano le Anime dei loro morti lungamente pregate e che erano scese,
quella notte, a salvare il Borgo dal sacco notturno che avrebbe provocato nuovi
lutti e nuove sofferenze.
Per il resto i danni non furono di poco conto, perché i soldati
scelsero come loro Quartieri le chiese di San Domenico e San Rocco. In
quest’ultima, “da alcuni scellerati Polacchi si mise il tutto a sacco con enorme dispreggio
delle Sacre Immagini e dei sacri arredi” . Almeno questa è la testimonianza
di Don Gian Francesco Varsi, che di quella terribile giornata fu attento
testimone.
***
Le Cento Croci
… ...... dove si ritrovava un corpo
morto si piantava una croce
et
tanto era il numero di croci che si diceva delle cento croci
e così venne a cambiare il suo primo nome di Lamba in Cento Croci.
e così venne a cambiare il suo primo nome di Lamba in Cento Croci.
Antonio Cesena (1558)
La strada che passava sul monte Lamba e che univa
Borgotaro a Varese Ligure era ritenuta una delle più pericolose, benché fosse di
grande importanza, come quella che permetteva alle popolazioni gli scambi dei
prodotti della marittima (olio, pesce, sale, tabacco, polvere da sparo, vino)
con quelli della nostra montagna (castagne, farine, insaccati, funghi).
Le cronache
antiche parlano del passo come di “loco horribile, selvaggio et oscuro” ,
dove molti vi morivano per mano d’assassini, ma anche perché “soffocati dalle
gran nevi”, dai venti e da “freddi et horridi tempi”.
Così sul
passo, e tutt’intorno, vi era una moltitudine di croci perché la pietà dei buoni
garantiva ai cadaveri una fossa e una semplice croce. Fu così che la gente
cominciò a chiamare Centocroci quel passo, fino alla totale scomparsa del
vecchio nome che, come abbiano detto, era Lamba.
Troppo era
importante questa via per non provvedere alla sua sicurezza, così quei di Varese
e di Valtaro decisero di costruire sul passo un “hospitio” che avrebbe
assicurato una maggior protezione ai viandanti, ai pellegrini e ai mercanti che
vi passavano.
Lo intitolarono a San Michele e ne presero possesso
dei bravi monaci che resero più sicuro il passaggio, soccorrendo gli sperduti
per nebbie e nevi, curandone altri
affaticati e stanchi, altri ancora, colpiti da mali o incidenti, venivano
ospitati amorevolmente.
Così il luogo
divenne famoso, “frequentato e visitato da molte persone con larghissime
limosine” e riferimento sicuro per tanti viandanti.
Non si sa
quando, né come, accadde che dei falsi frati prendessero un bel giorno il
possesso dell’hospitio di San Michele e il loro capo, non si sa se frate
o meno, che si faceva comunque chiamare Padre Monaco, mise in atto “una cosa
rea e scelleratissima” per arricchirsi.
Così, avendo
“il diavolo per consigliero”, fece di quel luogo fino ad allora testimone
di bene, un luogo infame e di morte.
Questo
“indiavolato huomo” fece scavare un pozzo profondo a mezzo miglio
dall’hospitio, dopo di che, ogni volta che doveva soccorrere, curare od
ospitare qualche viandante che gli pareva “huomo da denari”, con l’aiuto
dei suoi, lo faceva svenare e poi, dopo averlo spogliato di tutto, faceva
gettare i corpi “nell’horribil pozzo”.
Scrive il
cronista che non “possendo il divino giudicio d’Iddio comportare una così
horribil cosa”, permise che il grave fatto venisse alla fine scoperto.
Gli uomini del
monte erano soliti tenere dei cani mastini per difendere i loro bestiami dalle
fiere che un tempo infestavano i nostri monti. E per la verità in quei tempi i
lupi erano talmente audaci e ingordi che spesso attaccavano gli uomini, “con
tanto spavento di tutti che anco gli uomini arditi e valorosi non si attentavano
andare né soli, né senza armi”.
I cani
mastini, assai numerosi, partendo dai casolari sparsi intorno alle Centocroci,
abbandonavano spesso i loro greggi e a
schiere si portavano sulla bocca “del fetente pozzo”, e vi sostavano per
ore “urlando a gara; né si sa se fussero ivi tratti dal giudicio di Dio, o
dal fetore de putridi corpi” .
I pastori,
vedendo i cani abbandonare le greggi, non sapevano spiegarsi come mai
tradissero, inaspettatamente, la loro ben nota fedeltà dimostrata negli
anni.
Così un giorno
tre o quattro di loro decisero di seguire un gruppo di cani attraverso prati e
boschi fino a giungere, dopo lungo cammino, sopra il pozzo ch’era attorniato da
una schiera di cani ululanti. Visto quell’orribile spettacolo, attoniti e
smarriti, non sapendo quale decisione prendere, pensarono bene di avvisare,
prima di tutto, i monaci del vicino Hospitio.
Padre Monaco
mostrò grande sorpresa e meraviglia. Si dichiarò disgustato; alzò al
Cielo preghiere affinché il Signore facesse giustizia di tanto obbrobrio; chiamò
in causa San Michele Arcangelo, lui che viene sempre rappresentato con la spada
e che aveva fama di severo vendicatore.
Invitò i
pastori a recarsi dalle competenti autorità che avrebbero provveduto a ricercare
i colpevoli.
“Noi”,
aggiunse Padre Monaco, “non faremo mancare le nostre preghiere”.
I pastori
tornarono in valle e nella notte gli assassini, dismessi i loro abiti da
religiosi, se ne filarono via con tutta la refurtiva e i tesori accumulati, né
più fu possibile trovare le loro tracce.
“E così venne questo luoco tanto infame che
niuno si ritrovò che volesse abitarlo”
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