sabato 7 settembre 2013

ASPETTI DI CIVILTA' CONTADINA: La nascita





L'arrivo della levatrice
 

La nascita














C'era un tempo un che di misterioso attorno ai momenti che accompagnavano la nascita,  gravidanza, parto, allattamento, prime cure verso il neonato nascondevano un mondo di pratiche e di credenze al quale accedevano solo le donne sposate o anziane. Per gli uomini quel mondo era invece chiuso, quasi proibito, tanto che spesso, come la volpe con l'uva acerba, si consolavano dicendo: -J'èin rob' da don'-(Son cose da donne), quasi fosse un segno di scarsa virilità il parlare o l'interessarsi di tali argomenti.
Il primo annuncio della gravidanza era, dalla sposa, riservato in genere alla madre o alla sorella; non di certo al marito che spesso, all'interno della famiglia, riceveva la notizia da ultimo quando i segni erano ormai evidenti.
Man mano, poi, che si avvicinava il giorno del parto, aumentavano le preoccupazioni della gestante. Innanzi tutto doveva nascondere ai bambini il suo stato indossando larghi vestiti. Le era inoltre vietato passare sopra una corda, indossare collane e, quando cuciva, doveva ben guardarsi dal mettere al collo, come s'usava, le gugliate di filo pronte per l'uso: il bambino avrebbe corso il pericolo di nascere "morto", strangolato dal cordone ombelicale. Non doveva guardare immagini brutte, né persone con difetti fisici: gobbi, zoppi, sciancati: il bambino avrebbe potuto ereditare quei difetti.
Altro grave pericolo per la gestante erano " l' voje"(le voglie) di un particolare cibo. Se alla gestante ne fosse "venuta una", subito avrebbe dovuto toccarsi i capelli o i glutei in modo che la voglia eventualmente trasmessa al bambino, apparisse in una parte di pelle nascosta dai capelli o dagli indumenti intimi. Coi tempi che corrono quest'ultima soluzione sarebbe invero poco efficace considerato il poco, o nulla, che ormai si nasconde...
Per contro pochi erano i riguardi che si avevano verso la gestante che continuava sia i pesanti lavori di casa: fare "la bügà"(il bucato), andare per acqua al pozzo o alla fontana, fare il pane, sia il lavoro dei campi e la cura dell'orto.
Quando il feto cominciava a dar segni di sé, s'apriva ancora un ventaglio di credenze, mentre le donne più "esperte" avanzavano le prime ipotesi sul sesso del nascituro. Se la madre avesse sentito "ar brüzur' d' stumgu"(il bruciore di stomaco)... erano i capelli del piccolo che stavano crescendo, e più bruciori la gestante provava, più aumentava la sicurezza del sesso: molti bruciori portavano infatti a dire: "t' gh' farè l' tr'ss'"(le farai le trecce), a significare che sarebbe nata una femmina. Se il feto scalciava doveva invece trattarsi di un maschio.
Ma il sesso del nascituro veniva pronosticato anche osservando la forma della pancia: una pancia a punta non poteva che generare un bel maschietto; una larga, una femmina. Se la faccia della gestante si fosse fatta brutta, emaciata, sicuramente sarebbe nata una femmina; una faccia che restava bella, liscia indicava invece l'arrivo di un maschio.
Il periodo della gestazione viene comunemente considerato di nove mesi, in realtà nel passato si contavano le lune e fin che non si fosse "fatta la luna" l'evento non si sarebbe verificato.
Il parto avveniva sempre in casa, alla presenza della levatricve; spesso, invece, con il solo aiuto di donne "esperte". Durante il travaglio, quando i dolori si facevano forti, alla donna veniva data un'ostia di segala che qualcuno s'era affrettato ad andare a prendere in canonica.
Cominciava poi, dopo il parto, la "quarantèina", un periodo di quaranta giorni nel corso del quale la puerpera doveva osservare scrupolosamente alcune norme. Non doveva togliersi, per tutto il periodo, la camicia che aveva indossato al momento del parto. Ciò per tener lontano il pericolo di emorragie, ma creando intuibili problemi di igiene.
Non poteva toccare acqua, né uscire di casa. Non poteva cambiare il modo di alimentarsi, né mangiare verdure per non provocare mal di pancia o dissenteria al neonato. Doveva mangiare molta polenta(specialmente i "casagati" e bere del buon vino per fare il latte.
Il piccolo, che non poteva essere condotto fuori prima del termine della "quarantèina", veniva fasciato dal torace ai piedi con "l' fas'" che dovevano essere girate molto strette perché in caso contrario il bambino sarebbe cresciuto con le gambe storte. In testa, poi, gli veniva sistemata una cuffia che non doveva essere di lana per non arrossare gli orecchi e danneggiare la crescita dei capelli.
Le mani venivano invece coperte con "l' manopul'"(manopole) perché non si graffiasse la faccia, in seguito all'allungarsi delle unghie che non potevano assolutamente essere tagliate prima del compimento del primo anno: in caso contrario il bambino sarebbe diventato un ladro. Così pure i capelli, prima di tale scadenza, non potevano esser tagliati: avrebbe rischiato la calvizie.
Il bambino veniva anche protetto dalle "strie"(streghe): a tale scopo gli venivano messi dei braccialetti con corallini rossi o anche del semplice cordoncino rosso che veniva appeso anche al "ciüciôtu", sempre contro il malocchio.
Spesso la puerpera non aveva latte al seno. In tal caso accadeva spesso che i figli venissero dati "a balia" ad una donna cui era morto il figlio appena nato o ad una che avesse latte in abbondanza. Il piccolo veniva restituito alla madre dopo circa un anno. Esistono tuttora in zona "fradei o surèl' d' lat'"
Al termine della "quarantèina" la puerpera si sottoponeva alla cerimonia della "purificazione". Entrava in chiesa e si fermava in fondo, vicina alla porta, guardandosi bene dal superare l'acquasantiera. Arrivava il sacerdote che le consegnava una candela che veniva subito accesa. Insieme, quindi, percorrevano l'intera navata e sempre pregando giungevano ai piedi dell'altare maggiore. Qui la puerpera riceveva la benedizione purificatrice. Al termine del rito avrebbe potuto riprendere la sua vita normale.
(Da: Aspetti di civiltà contadina in Valtaro - Testo di Giacomo Bernardi - Acqueforti di Mario Previ. 1987)

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