L'arrivo della levatrice
La nascita
C'era un tempo un che di misterioso
attorno ai momenti che accompagnavano la nascita, gravidanza, parto,
allattamento, prime cure verso il neonato nascondevano un mondo di pratiche e di
credenze al quale accedevano solo le donne sposate o anziane. Per gli uomini
quel mondo era invece chiuso, quasi proibito, tanto che spesso, come la volpe
con l'uva acerba, si consolavano dicendo: -J'èin rob' da don'-(Son cose
da donne), quasi fosse un segno di scarsa virilità il parlare o l'interessarsi
di tali argomenti.
Il primo annuncio della gravidanza era, dalla sposa, riservato
in genere alla madre o alla sorella; non di certo al marito che spesso,
all'interno della famiglia, riceveva la notizia da ultimo quando i segni erano
ormai evidenti.
Man mano, poi, che si avvicinava il giorno del parto,
aumentavano le preoccupazioni della gestante. Innanzi tutto doveva nascondere ai
bambini il suo stato indossando larghi vestiti. Le era inoltre vietato passare
sopra una corda, indossare collane e, quando cuciva, doveva ben guardarsi dal
mettere al collo, come s'usava, le gugliate di filo pronte per l'uso: il bambino
avrebbe corso il pericolo di nascere "morto", strangolato dal cordone
ombelicale. Non doveva guardare immagini brutte, né persone con difetti fisici:
gobbi, zoppi, sciancati: il bambino avrebbe potuto ereditare quei difetti.
Altro grave pericolo per la gestante erano " l'
voje"(le voglie) di un particolare cibo. Se alla gestante ne fosse "venuta
una", subito avrebbe dovuto toccarsi i capelli o i glutei in modo che la voglia
eventualmente trasmessa al bambino, apparisse in una parte di pelle nascosta dai
capelli o dagli indumenti intimi. Coi tempi che corrono quest'ultima soluzione
sarebbe invero poco efficace considerato il poco, o nulla, che ormai si
nasconde...
Per contro pochi erano i riguardi che si avevano verso la
gestante che continuava sia i pesanti lavori di casa: fare "la bügà"(il bucato),
andare per acqua al pozzo o alla fontana, fare il pane, sia il lavoro dei campi
e la cura dell'orto.
Quando il feto cominciava a dar segni di sé, s'apriva ancora un
ventaglio di credenze, mentre le donne più "esperte" avanzavano le prime ipotesi
sul sesso del nascituro. Se la madre avesse sentito "ar brüzur' d'
stumgu"(il bruciore di stomaco)... erano i capelli del piccolo che stavano
crescendo, e più bruciori la gestante provava, più aumentava la sicurezza del
sesso: molti bruciori portavano infatti a dire: "t' gh' farè l'
tr'ss'"(le farai le trecce), a significare che sarebbe nata una femmina. Se
il feto scalciava doveva invece trattarsi di un maschio.
Ma il sesso del nascituro veniva pronosticato anche osservando
la forma della pancia: una pancia a punta non poteva che generare un bel
maschietto; una larga, una femmina. Se la faccia della gestante si fosse fatta
brutta, emaciata, sicuramente sarebbe nata una femmina; una faccia che restava
bella, liscia indicava invece l'arrivo di un maschio.
Il periodo della gestazione viene comunemente considerato di
nove mesi, in realtà nel passato si contavano le lune e fin che non si fosse
"fatta la luna" l'evento non si sarebbe verificato.
Il parto avveniva sempre in casa, alla presenza della
levatricve; spesso, invece, con il solo aiuto di donne "esperte". Durante il
travaglio, quando i dolori si facevano forti, alla donna veniva data un'ostia di
segala che qualcuno s'era affrettato ad andare a prendere in canonica.
Cominciava poi, dopo il parto, la "quarantèina", un periodo di
quaranta giorni nel corso del quale la puerpera doveva osservare scrupolosamente
alcune norme. Non doveva togliersi, per tutto il periodo, la camicia che aveva
indossato al momento del parto. Ciò per tener lontano il pericolo di emorragie,
ma creando intuibili problemi di igiene.
Non poteva toccare acqua, né uscire di casa. Non poteva cambiare il modo di alimentarsi, né mangiare verdure per non provocare mal di pancia o dissenteria al neonato. Doveva mangiare molta polenta(specialmente i "casagati" e bere del buon vino per fare il latte.
Il piccolo, che non poteva essere condotto fuori prima del
termine della "quarantèina", veniva fasciato dal torace ai piedi con "l'
fas'" che dovevano essere girate molto strette perché in caso contrario il
bambino sarebbe cresciuto con le gambe storte. In testa, poi, gli veniva
sistemata una cuffia che non doveva essere di lana per non arrossare gli orecchi
e danneggiare la crescita dei capelli.
Le mani venivano invece coperte con "l'
manopul'"(manopole) perché non si graffiasse la faccia, in seguito
all'allungarsi delle unghie che non potevano assolutamente essere tagliate
prima del compimento del primo anno: in caso contrario il bambino sarebbe
diventato un ladro. Così pure i capelli, prima di tale scadenza, non potevano
esser tagliati: avrebbe rischiato la calvizie.
Il bambino veniva anche protetto dalle "strie"(streghe):
a tale scopo gli venivano messi dei braccialetti con corallini rossi o anche del
semplice cordoncino rosso che veniva appeso anche al "ciüciôtu", sempre
contro il malocchio.
Spesso la puerpera non aveva latte al seno. In tal caso
accadeva spesso che i figli venissero dati "a balia" ad una donna cui era
morto il figlio appena nato o ad una che avesse latte in abbondanza. Il piccolo
veniva restituito alla madre dopo circa un anno. Esistono tuttora in zona
"fradei o surèl' d' lat'"
Al termine della "quarantèina" la puerpera si sottoponeva alla
cerimonia della "purificazione". Entrava in chiesa e si fermava in fondo, vicina
alla porta, guardandosi bene dal superare l'acquasantiera. Arrivava il sacerdote
che le consegnava una candela che veniva subito accesa. Insieme, quindi,
percorrevano l'intera navata e sempre pregando giungevano ai piedi dell'altare
maggiore. Qui la puerpera riceveva la benedizione purificatrice. Al termine del
rito avrebbe potuto riprendere la sua vita normale.
(Da: Aspetti di civiltà contadina in
Valtaro - Testo di Giacomo Bernardi - Acqueforti di Mario Previ.
1987)
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