La castagna nella cultura, nel costume e nella gastronomia.
Il primo ricordo che ho della castagna risale all’epoca in cui frequentavo la scuola elementare. Ricordo bene che nel libro di lettura, che allora chiamavamo sillabario, c’era sempre una doppia pagina dedicato alla castagna.
Il testo era accompagnato da una
illustrazione nella quale si vedeva un uomo malvestito, con cappello
e bastone, con attorno qualche pecora. L’uomo, dall’alto di una
montagna, era intento ad osservare con meraviglia e un poco d’invidia
la sottostante pianura dove spiccavano le messi dorate, i lunghi
filari di viti, i campi ben coltivati. E di certo non poteva fare a
meno di confrontare le fatiche e gli scarsi raccolti del montanaro
con l’opulenza dell’uomo della pianura.
Ma a questo punto, si leggeva nel
testo, entrava in campo il Buon Dio che diceva al montanaro: “
Conosco bene le tue fatiche, la povertà dei tuoi raccolti. Ma ora
anche agli uomini del monte farò un grande regalo. L’albero del
pane: il castagno e la castagna saranno il pane del montanaro”.
In fondo alla pagina campeggiava un
bellissimo castagno ai cui piedi stavano ricci e castagne.
A quei tempi, ahimè lontani, eravamo
in pieno regime fascista e credo che l’apologo fosse più che altro
un tentativo di sollevare il morale dei montanari, la cui vita era
davvero scandita da lavori massacranti, che per contro poco rendevano
in fatto di produttività.
Ma i montanari erano buoni, ligi ai
doveri e rappresentavano una grande riserva cui attingere ogni
qualvolta scoppiava una guerra. E quindi bisognava pur ricordarsi di
loro e convincerli che la castagna era un grande dono.
Ma, al di là della favola allegorica,
la castagna è stata davvero, per secoli, non un pane, ma certamente
un elemento fondamentale nella vita degli abitanti di queste
montagne.
Le castagne si mangiavano mattina o
sera, tutti i giorni, fresche o secche, come frutto o come farina.
Furono insomma una delle maggiori
risorse alimentari della montagna: il frutto che più di ogni altro
prodotto permise agli abitanti di queste terre di sopravvivere.
Per dimostrare che quanto ho detto non
fa parte del folklore, della aneddotica o della leggenda porterò
alla vostra attenzione alcuni riferimenti, anche di alto profilo
documentaristico.
Nel 1804, andiamo quindi a ritroso di
circa 200 anni, il Cap. Antonio Boccia riceveva l’incarico dal
Saint Mery, Amministratore Generale degli Stati Parmensi per conto di
Napoleone, di percorrere la montagna Parmense e Piacentina al fine di
redigere un quadro aggiornato sulla situazione socio-economica.
Alla fine ne uscì un manoscritto,
conosciuto come “Viaggio ai monti di Parma”, in cui il Boccia
descrive in modo minuzioso il suo viaggio, manoscritto che è ancor
oggi una miniera di notizie d’ogni genere.
Quando nel corso del suo viaggio che
durerà più di un anno arriva a Ostia, scrive:
“Qui cangia l’aspetto della Valle del Taro che da Fornovo fino ad Ostia non è solo poco dilettevole e amena, ma quasi infeconda e deserta, tutto è solitudine per lo spazio di ben venti miglia.
Dalle vicinanze di Ostia all’insù si scorgono campagne ben coltivate, vigne innumerevoli e fruttifere, prati e pascoli e boschi immensi di castagni che continuano fin al di là di Borgotaro.
Questi castagneti che sono sulla
costa destra formano la principale nutrizione dei popoli di questa
valle e il sovrabbondante che non è di poco momento, si vende agli
esteri che ne scarseggiano”.
Mi pare sottolineata a sufficienza
l’importanza della castagna per gli abitanti della valle. Consumo
locale ed esportazione.
Ma possiamo risalire ancora lungo i
secoli, fino al ‘500
Il Comune di Borgotaro possiede un
ottimo archivio, avrebbe bisogno anzi ha bisogno di essere meglio
sistemato, comunque conserva, tra gli altri documenti, la raccolta
dei Convocati, ossia i verbali delle riunioni del Consiglio della
Comunità a partire dalla prima metà del ‘500.
In data 13 ottobre 1569, qualcosa come
434 anni fa, il Consiglio si riuniva e il Console giustificava la
convocazione della seduta(cito) “per dare ordine alla
reparatione et restauratione di doi archi del ponte che il giorno de
martedì passato alle undici del presente mese furno megio ruinati e
devastati sin quasi sopra le lor more. La inondatione e gran furore
de l’acqua del fiume de Tarro che vene talmente grossa che saltò
sopra detto ponte e per questo lo rupe al modo già deto e che deta
reparatione ha molto bisogno di celerità e sia fatta di subito per
esser nei giorni e tempi pluviosi ne i quali se una altra volta
ritornasse la medesima inondatione si teme che deto ponte non
restasse del tutto ruinato il che saria gran pregiudicio e danno a
tutta questa Università”.
Ebbene cosa decidono i Consiglieri:
“Hanno ordinato e ordinano che
detto ponte sia come prima raccomodato e di novo restaurato a fine
posino passar le mercantie secondo le occorrentie e si facia una
grida et ognuno che habbi bestie tutti li debano aver precettati e
conduti per portar la materia cioè calcina, pietre e sabione et
ordinano(ecco la parte che ci interessa) per esser in procinto
dil portare le castagne che ognuno sia obligato a mandar un suo per
casa ad ajutar in far tale riparatione”.
Gli abitanti delle frazioni sulla
destra Taro, visto che sono in procinto di portar le castagne al
mercato del Borgo( e quindi a guadagnare) vengono obbligati
indistintamente uno per ogni famiglia a prender parte ai lavori di
riparazione del ponte.
Tra parentesi dirò che la notizia di
questa esondazione mi ha dato un certo sollievo. Quando oggi
accadono cose di questo tipo giornali e televisioni vanno a gara nel
farci sentire colpevoli di chissà quali delitti. E invece è
consolante sapere che anche allora in assenza di asfalti,
costruzioni, scavi succedevano, spesso, questi disastri.
Comunque il documento attesta, prima di
tutto, in qual modo la Comunità sapesse, in poco tempo mobilitarsi
in presenza di bisogni generali e poi l’importanza che già nel
cinquecento dovevano avere le castagne, se il solo fatto di
appartenere alla categoria di coloro che possedevano castagneti,
autorizzava il Consiglio a precettarne uno per famiglia.
Un altro e ultimo salto a ritroso nel
tempo.
Siamo nella seconda metà del
‘400,(qualcosa come più di 500 anni fa) il principe Fieschi fa
dono a Borgotaro di un nuovo Statuto.
Esso conteneva norme relative
all’organizzazione sociale e amministrativa: quindi tasse,
giustizia, delitti e pene, contratti, successioni, feste, fiere,
tempi dei raccolti, igiene pubblica, diritti e doveri. Insomma lo
statuto era al tempo stesso, carta costituzionale, codice civile e
penale, riferimento preciso e puntuale per ogni controversia.
Ebbene quando si parla del modo di
amministrare la giustizia troviamo che anche questa si fermava in
alcune occasioni particolari.
All’art. 6 del secondo libro, si
elencano i giorni festivi. Ebbene per il mese di settembre vengono
considerati tali anche quelli(cito) “dal quindicesimo
giorno(sottinteso di settembre) sino alle calende di novembre
per le vendemmie, le semine e la raccolta delle castagne”. E si
aggiunge” In tutti questi giorni siano sospesi interrogatori e
sequestri e si plachi il rumore provocato dalle cause civili per le
quali si applicheranno le formule del procedimento sommario”.
E più avanti all’art. 36 del libro
sesto si legge:
“Nessuno può accusare alcun
animale né persona che mangi e raccolga le castagne nei boschi di
castagne se non nei mesi di settembre, ottobre, novembre, sino al
compimento del giorno dieci del mese di dicembre”.
E qui facciamo una incursione negli usi
e costumi in vigore fino a qualche decennio fa, quando dopo il
raccolto delle castagne, era lecito a terzi di raccogliere il
prodotto rimasto a terra. Azione che in termine dialettale veniva
detta “Racià”, ossia “andà a raciu”. Così come avveniva
per il grano dove i terzi erano autorizzare a “spigolare” dopo la
mietitura.
Vista la documentazione storica, è
naturale che questo frutto abbia creato da noi quella che possiamo
chiamare la “cultura della castagna” che noi troviamo ancora oggi
nella toponomastica, nei cognomi, nei soprannomi, nei proverbi e nei
modi dire, nella gastronomia, fino in quella che viene detta
architettura spontanea.
Diciamo intanto che non tutte le
castagne sono uguali . Pochi oggi, a dire il vero, riescono a
riconoscere le varietà delle castagne. Al massimo i più dividono i
frutti in due parti: i marroni e le castagne normali..
In realtà le varietà d’albero erano
innumerevoli, sia selvatiche che domestiche. Nei nostri boschi sono
presenti sia maestosi castagni “domestici”, quelli cioè
innestati, che quelli “selvatici”. Questi ultimi sono certamente
meno maestosi e monumentali , ma più svettanti e quindi ottimi da
legname, ma in grado altresì di produrre buoni frutti anche se
spesso hanno il difetto di contenere nei ricci una sola piccola
castagna tra due “güson” ossia castagne che presentano la sola
buccia senza quasi contenuto.
Comunque sia, fossero d’albero
domestico o selvatico, molte erano e sono le varietà di castagne. E
qui i nomi dialettali sono talmente tanti da rappresentare, penso,
l’esempio di come a volte il dialetto sia più ricco della lingua
dotta. Denominazioni che erano importanti perché dietro il nome
stava l’utilizzazione ottimale di questi frutti.
Proviamo a citarne alcune, di queste
varietà:
Rus’tt’: buccia rossiccia,
frutto piccolo saporito, adatto per baletti e per l’essiccazione.
Massèiz’: buccia scura,
frutto piccolo, adatto come le precedenti
Luv’tt’: frutto grosso, ma a
lobi, adatto per le “pelate”, non per l’essiccazione dando
molto scarto(p’stüri)
Fojastr’tta: frutto piccolo,
rotondo, duro, buono per balletti e anche per l’essiccazione
E poi..
Lincardèin’Bratèin’
Garbel’
P’rt’gasi
Tramuntan-n
Il prodotto poteva mantenersi fresco e
come tale consumato da ottobre fino a Pasqua. Per conservarli più a
lungo spesso venivano lasciate dentro i ricci ammucchiati, ai quali
si attingeva di volta in volta.
I montanari conoscevano molto bene
l’utilizzazione ottimale d’ogni varietà.
Comunque si mangiavano bollite, i
bal’tti.
Oppure liberate della buccia cotte in
acqua salata con un po’ di semi di finocchio selvatico e allora si
avevano l’ plà, ossia le pelate che oltre ad essere
mangiate sole potevano anche essere immerse bollenti nel latte freddo
o fredde nel latte tiepido.
Le castagne si mangiavano anche
arrostite nel camino o sopra i coperchi della stufa.
Secche erano la gioia dei bambini, ma
non solo, e duravano tutto l’anno. Anch’esse potevano essere
bollite e si mangiavano così o spappolate nel latte
Grandi quantitativi di castagne
venivano tramutati in dolcissima farina attraverso l’essiccazione
che avveniva in appositi “essiccatoi” che venivano costruiti
lontani dalle abitazioni nel fitto del bosco.
In dialetto “casel’”, in
lingua “metati” nome veramente spaventoso lontano mille
miglia dalla semplicità di quelle costruzioni che numerose ancora
s’incontrano nei nostri boschi.
Questi essiccatoi erano formati da un
unico locale di forma rettangolare, con pavimento di terra, e come
solaio avevano la “gra”, un graticcio in listelli di
castagno. Sopra venivano stese le castagne, sotto si accendeva un
fuoco che ben controllato giorno e notte trasformava il frutto da
fresco a essiccato. L’operazione durava una ventina e più giorni.
Il legno che si bruciava doveva essere una “sôca”, ossia
derivante da un ceppo di castagno. Questo perché la “sôca” non
fa fiamma.
Ma potevano essere essiccate anche
nelle cucine dell’abitazione, da qui quel colore nero fumo tipico
delle abitazioni di campagna.
A volte, quando tra le castagne ve
n’erano alcune marce, il baco che stava all’interno usciva dalla
castagna a causa del caldo che saliva.
Quindi, attaccato come un “ragnetto”
ad una bava, calava verso il tavolo di cucina. Spesso non era uno
solo, ma a decine scendevano cosicché l’attenzione della massaia o
dei commensali doveva essere massima per non dover correre il rischio
di mangiarne qualcuno finito nella pentola o nel piatto.
Seguiva l’operazione della pulitura.
Si riempivano grosse “büsach’ (sacchi) di prodotto,
quindi quattro persone prendevano i quattro lembi e si batteva dalle
20 alle 25 volte il sacco. Quindi le donne passavano il prodotto al
vaglio.
Si ripeteva poi nuovamente l’operazione
sia della battitura che della vagliatura, fino ad ottenere il
prodotto secco ben pulito.
Tra le castagne ve n’erano sempre
alcune che non si erano seccate completamente, erano invece tenere,
si masticavano bene ed erano saporitissime. In dialetto venivano
chiamate “l’ lèint o l’nton.
Queste castagne erano il terrore dei
mugnai. Infatti bastava una di queste castagne per “l’p’gà”
la macina.
Questa castagna impiastrava talmente la
macina che bisognava interrompere la molitura e sollevare la macina
per ripulirla.
E’ proprio dal prodotto secco, poi
ridotto in farina, che la gastronomia attingeva a piene mani.
E qui la fantasia spaziava in ogni
direzione nel tentativo di diversificare in qualche modo quel sapore
che rischiava di essere sempre lo stesso.
Molti sono quindi gli utilizzi:
Come polenta: distinta in due versioni.
Quella che si cuoceva al pari di quella
di farina di melica ed era quindi abbastanza soda, da potersi
tagliare a fette con il classico filo di refe. La si mangiava sorda o
con formaggio casereccio o ricotta.
E quella detta “pulèinta
d’stèiza” molto tenera, che veniva appunto distesa sopra un
sostegno in legno posto in mezzo alla tavola. Ognuno con il proprio
cucchiaio cominciava a mangiarla dal proprio lato andando avanti
verso il centro, fin che ce n’era. Su questa polenta veniva spesso
versato un impasto di ricotta, latte e pecorino.
Accenno di passaggio ai padl’tti
, le frittelle ben conosciute. Piatto saporito e veloce da preparare.
Alle castagnacce, arricchite con
uvetta, pinoli.
Alle pattone, ottime con la ricotta.
Ma si facevano spesso anche le
tagliatelle
La zuppa di castagne secche che
s’otteneva mettendo in ammollo(in acqua o latte) il frutto secco
per alcune ore. Quindi si cocevano a lungo aggiungendo un poco di
sale. Prima di toglierle dal fuoco venivano condite con panna o
burro.
Cito un piatto poco conosciuto che si
rifà a tempi lontani Veniva preparato la sera dei Santi durante il
tradizionale filosso. Il nome è tutto un programma: Pürgatoriu
o se volete castagne fiammeggianti
Si procedeva così:
Si arrostivano le castagne, si
sbucciavano e ancor calde venivano poste su di un vassoio di lamiera
o in padella bene asciutta.
Si irroravano le castagne con la
grappa, sopra una spolverata di zucchero, poi si dava fuoco al tutto.
Si spegnevano luci, lumi o lanterne e
il piatto veniva presentato al buio tutto fiammeggiante. Appena le
fiamme si spegnevano si riaccendeva il lume e si gustavano le
castagne.
Da ultimo, ma ci sarebbero molti altri
piatti, cito la marmellata e in particolare la “patouna d’la
düra”.
Quest’ultimo era un dolce che veniva
preparata durante il periodo natalizio. Ricordo di averlo mangiato
quando durante l’ultima guerra ero sfollato a Cipalo di Buzzò.
Nell’impasto a base di farina di castagne, venivano aggiunte noci,
pinoli, fichi secchi. Era molto compatto, quasi duro e si manteneva
anche per mesi. Ricordo anche il brucior di stomaco che provocava.
La gastronomia mi dà lo spunto per un
breve incursione nei proverbi e modi dire legati a questo frutto.
La castignasa
Cum’ a t’ tröva a t’ lasa
Ossia la castagnaccia come ti trova di
lascia nel senso che era poco sostanziosa e nutriente.
Un altro proverbio che lascia
sottintendere non pochi contrasti e litigi dice:
La castagna a gh’ha la cua
Chi la ciapa l’è la sua
Letteralmente la castagna ha la coda
chi la prende è la sua
La castagna cade, rotola, si sposta
come un essere vivente(ecco il riferimento alla cosa) e se va a
finire in luogo diverso da quello del proprietario dell’albero,
chiunque può raccoglierla.
Quest’uso pare non sollevasse
problemi quando ad esempio la castagna cadeva sulla pubblica via.
Ancora nei giorni scorsi, mi è accaduto di raccogliere castagne
sulla strada asfaltata che porta a Buzzò, anche se il bosco era
contornato da quelle orrende strisce bianco-rosse in segno di
divieto.
Ma pare invece che le cose non fossero
tranquille quando i confini di proprietà correvano all’ interno
del bosco. Sostengono alcuni(ancor oggi) che se dal loro albero
cadono castagne ben
riconoscibili e vanno a finire nel
bosco altrui, conservino solo loro il diritto a raccoglierle. Ho
constatato questo dissidio tra due persone da me interpellate in
questi giorni.
Un altro proverbio che lega, come
spesso accadeva, un raccolto non ad una data, ma al nome di un santo
recita:
P’r San Maté
L’ castagn’ sutu ai pé
Per San Matteo le castagne sotto i piedi
A indicare che alla ricorrenza di San
Matteo(21settembre), le castagne cominciavano a cadere.
Rientra invece nelle similitudini, dire
di un uomo robusto “l’è fort’ cum’ un castagnu”, l’è
un castagnon .
Ma siccome da noi spesso l’essere
grande e grosso significava anche portarsi dietro un giudizio poco
lusinghiero sulle proprie qualità intellettive ecco un noto
proverbio che dice:
Al castagnu dal Madon
Grand’ grosu e ben cujon.
Il Madone è un toponimo, ossia nome di
un luogo, in frazione Baselica, assai noto per la presenza di
castagni secolari.
Quindi la traduzione letterale è:
Il castagno del Madone
Grande, grosso e ben coglione. (scusate
ma non c’è altra traduzione)
E a proposito di toponimi, sono molti quelli legati alla castagna
A Belforte esiste un gruppo di case
detto l’ castagnöl’ “le castagnole”
A Tiedoli: le prime case dopo Magrano
si chiamano “la castagnöla” “la castagnola”.
Ma la castagna la ritroviamo presente
nei cognomi borgotaresi
Castagnoli è un cognome assai noto e
diffuso a Borgotaro
Nei soprannomi: Castagnö(riferito a
coloro che portano il cognome Del maestro)
Castignasa(riferito al cognome Bracchi)
E mi chiedo chi meglio del prof.
Bracchi potesse introdurre questo convegno visto che sia da parte di
padre “Castignasa” che di madre che porta il cognome di
Castagnoli, è strettamente legato a questo frutto. Posso anche
aggiunge per completezza di informazione che il prof. Abita a Parma
in Via “Due castagne”
Anche nei funghi: esistono infatti i
fonzi castagnèri
I castagni, o meglio i loro tronco in
questo caso, hanno reso un grande servigio alla popolazione
borgotarese.
Infatti nel 1929 la famosa Industria
Ruggeri Benelli di Prato, metteva in funzione a Borgotaro uno
stabilimento per la produzione di estratti tannici, rilevato poi
dalla F.N.E.T (fabbrica nazionale estratti tannici). Occorrevano
quindi grandi quantità di legname di castagno, le caratteristiche
“schiappe” ottenute dalla spaccatura verticale del tronco i
quattro parti.
Tutto il lavoro che stava a monte
veniva condotto con metodi primitivi e richiedeva pertanto numerosa
manodopera sia per il taglio manuale sia per il trasporto a mezzo di
centinaia di muli, oltre che all’esercizio di teleferiche e
all’attività di accatastamento e carico.
Si può dire che per decine di anni, se
si considera il centinaio di persone impiegate nello stabilimento e
più del doppio come indotto, circa 500 persone siano vissute grazie
a questo stabilimento.
Da ultimo vorrei qui assimilare il
castagno al maiale.
Che se del noto animale nulla si sciupa
o si scarta, altrettanto mi pare si possa dire dell’albero del
castagno.
Il tronco, buono da lavoro(mobili,
botti, tini, secchi per l’acqua, ma anche per ricavare truogoli e
bui, ossia arnie rudimentali), da ardere, o per la produzione di
estratti tannici.
Le matricine lunghe e dritte, adatte a
pali o fittoni, perché resistenti alle intemperie, o se giovani per
costruire le ceste da legna e da frutta.
I verdi virgulti, assai “strupignusi”,
si storcevano e diventavano assai flessibili, quindi usati come lacci
per chiudere i sacchi pieni di grano.
I rami più vecchi ad uso fascine per
stufe e forni.
Le foglie verdi per appoggiarvi le
pagnotte prima di introdurle nel forno.
Le foglie secche e i ricci venivano
raccolti per farne strame, lettiera per le stalle, operazione che
manteneva i boschi puliti.
Inoltre, quando il fieno veniva a
scarseggiare e ciò un tempo accadeva spesso, si usava come si dice
“far la foglia”. Ossia si spezzavano i rami sottili ancora
fogliati, se ne facevano mazzetti con i quali si formavano dei
pagliai , quindi usati come alimento per le mucche, così come si
faceva comunemente con i rami dei cerri.
Non v’era nulla del castagno che
venisse sprecato.
Un albero quindi prezioso, oggi
purtroppo dimenticato.
Intervento in occasione del convegno sui prodotti locali, svoltosi a Borgotaro nel settembre 2006.
Intervento in occasione del convegno sui prodotti locali, svoltosi a Borgotaro nel settembre 2006.